3 Days in Quiberon (Tre giorni a Quiberon), un film di Emily Atif. Con Marie Bäumer, Birgit Minichmayr, Charly Hübner, Robert Gwisdek, Denis Lavant. Competition.
Aprile 1p81. In una spa, anzi ‘sanatorium’, di Quiberon, Bretagna, una sofferente Romy Schneider rilascia un’intervista a un reporter di Stern. Intervista che diventerà famosa per la franchezza dell’intervistata, che ripercorre la sua vita segnata dal successo troppo precoce. Bellissima idea, purtroppo solo piattamente illustrata. Ci sarebbe voluto Fassbinder per raccontare adeguatamante la grande diva tedesca (comunque un perfetto film per signora). Voto 5 e mezzo
Ci si aspettava qualcosa. Invece film qualunque, diligente, anonimo. Di quei film che sprecano l’occasione. E l’occasione qui è Romy Schneider, un frammento della sua vita, e scusate se è poco. Tre giorni a Quiberon, luogo di Bretagna di talassoterapia, di spa anzi sanatorium (come dice la sinossi della Berlinale, che a noi italiani fa subito Montagna incantata), sono quelli dell’aprile 1981 in cui la allora massima diva del cinema europeo concede un’intervista a a un giornalista del settimanale tedesco Stern. Intervista che diventerà famosa per la franchezza dell’intervistata, per come la Schneider mostrò debolezze e fratture intime e raccontò di sé senza schermarsi troppo, a partire dal bagaglio pesante della troppo precoce celebrità dovuta alla saga di Sissi. Quasi una confessione laica. Servizio accompagnato dagli scatti che un fotografo suo amico di lunga data, Michael Jürgs, le fece in quei tre giorni. Il posto è un albergo abbastanza qualunque a pochi passi dal mare. Schneider, assai provata, è lì per ritemprarsi e prepararsi a un nuovo film, accompagnata da una fedele amica. Nevrosi e protagonismi da diva, secondo cliché, e disastri interiori, forse anche questo un cliché. Ma lo star male di Schneider non è uno stereotipo. Salute pericolante, alcolismo, cui si aggiungono problemi di soldi, i segni dì un matrimonio fallito e una storia in corso accidentata. Ha cominciato a lavorare a 15 anni, è sempre stata sotto i riflettori, ha avuto un amore fin troppo celebre con Alain Delon che l’ha sovraesposta. E nell’intervista accusa la madre attrice – è il cuore della confessione – di non averla protetta adeguatamente, anzi di aver riversato su di lei la propria ambizione. Marie Bäumer è brava e somigliante, ma non può avere la luce dell’originale. I tre giorni di e con Romy sono un rollercoaster tra euforie e derive, sempre innaffiate da troppo champagne, troppo vino. La dipendenza dall’alcol è il lato più evidente e drammatico del film. Che è rispettoso senza essere genuflesso, ma che manca di invenzioni, di strappi che sappiano mostrarci altro. Bianco e nero ad accentuare il senso di realtà. Colpiscono la temerarietà del giornalista Michael Jürgs nel porre domande non accomodanti e la sincerità delle risposte. Manca però un quasiasi pensiero sulla società-spettacolo, sulla magnifica ossessione e finzione che è il cinema. Manca una qualsiasi elaborazione del materiale narrativo di partenza. Ci voleva Fassbinder, ecco. Poteva essere un altro grande film su bellezza e tragedia del divismo – penso a Fedora di Billy Wilder -, e invece. Attenti alle date. Il film si svolge in una fase cruciale per Romy Schneider, nell’aprile del 1981. Nel luglio di quell’anno David, il figlio adolescente, morirà atrocemente. Nel maggio del 1982 sarà lei a morire, a poco più di quarant’anni.
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