La terra dell’abbastanza dei fratelli Damiano & Fabio D’Innocenzo. Con Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti, Milena Mancini, Max Tortora, Giordano De Plano. Sezione Panorama.
Storia di due ragazzi romani cui un incidente apre inaspettatamente le porte di una potente banda. E sarà carriera criminale. In apparenza l’ennesimo derivato del genere suburra-romanzo criminale. Da cui invece La terra dell’abbastanza si discosta per il suo senso dell’ineluttabile, del tragico. Molto applaudito alla proiezione con il pubblico, presenti i due fratelli registi. Voto 6 e mezzo

I fratelli D’Innocenzo
Il secondo film italiano di questa Berlinale dopo Figlia mia di Laura Bispuri (ci sarebbe anche Lorello e Brunello di Jacopo Quadri a Culinary, distaccamento dedicato al food, ma lo si è già visto a Torino). Qualche veloce spiega: La terra dell’abbastanza non è nel Concorso, ma nella seconda sezione in ordine di importanza del festival, Panorama, sezione non competitiva: non sono previsti premi di una giuria ufficiale, solo quelli assegnati dal pubblico tramite voto sulla scheda consegnata all’entrata. A introdurlo martedì sera in una delle sale del Cinemaxx c’erano i due registi, i fratelli (gemelli) romani Damiano e Fabio d’Innnocenzo (che nei credit appaiono come Fratelli D’Innocenzo: come una ditta, come i Manetti, ma italianizzando il Bros.). In un’intervista rilasciata prima della Berlinale al Corriere della sera hanno raccontato di non avere fatto scuole di cinema, di averlo conosciuto e amato guardando i vhs e dvd di papà. Al Cinemaxx di fronte al pubblico ci hanno giocato parecchio con questa loro storia non accademica, presentandosi ruspantissimi e rromani veri de Roma come piace agli stranieri, o come sono davvero. Zero inglese (tutti gli autori, ma proprio tutti, anche quelli dei paesi più disagiati del globo, quando vanno ai festival un qualche speech in inglese, magari minimo, magari preparato da altri, lo tirano fuori. I D’Innocenzo niente, e sono l’unica eccezione), e solo romanesco strettissimo incomprensibile oltre il raccordo anulare. Però applausi su applausi alle loro battute da una platea complice e bendisposta, presumo composta in buona parte da italiani (seduta vicino a me c’era una coppia che ha continuato a parlare di dottorato, ricerche, finanziamenti Ue e quant’altro: cervelli in fuga?). La morale è: fare l’italiano vero (il romano, il siciliano ecc.), vero e pizzarolo, nel Nord Europa paga sempre. Io devo dire che dopo il simpatico siparietto dei Fratelli non ero molto ben disposto verso il loro film. E invece mi sono ricreduto vedendolo, anche se non urlo al capolavoro.
Siamo nel perimetro del cinema neoromano e neoromanesco, coatti, pischelli, bande criminali, roma criminale, romanzi criminali, suburre e gomorre sul tevere e l’aniene. Più che un genere, un universo cinematografico parallelo e autoreferenziale che si autoalimenta e cresce mostruosamente su se stesso. Rischiando di fagocitare il resto del nostro cinema, anche perché è l’unico che riusciamo a esportare, e dunque via con la monocoltura. Solo che dopo Jeeg Robot e surrogati e derivati si comincia a non poterne più (cfr. l’orrendo Brutti e cattivi visto a Venezia). Anche se va detto come in La terra dell’abbastanza siamo, più che nel genere Suburra-Romanzo criminale, alla sua intersezione con quello più esistenzialista-neopasoliniano alla Fiore e Alì ha gli occhi azzuri di Claudio Giovannesi, ragazzi e ragazzacci alla deriva in periferie di inaudito squallore e, ebbene sì, degrado morale.
I due pischelli Mirko e Manolo, diciott’anni appena fatti, che dovrebbero essere studenti ma a scuola non vanno, una sera investono con la macchina un tizio. Che ci resta. E via con disperazioni e improperi e insulti reciproci in un romanesco da iniziati, tutto un mumble mumble del tevere con cadenze da rap borgataro (un tempo lo si sarebbe detto pittoresco, adesso non si può più). Dunque, i due incoscienti non si fermano, si fiondano invece dal papà di Manolo a frignare che consiglia loro, ovvio, di starsene zitti e di farci una dormita sopra. Poi il colpo di scena. Quello che hanno ammazzato era un pentito, un infame che, dopo aver denunciato la temibile banda dei Pantano viveva in clandestinità. Sicché ecco l’idea del padre di Manolo: approfittare del regalo del caso, andare dal boss, dirgli ” ti abbiamo fatto fuori l’infame e adesso tu te prenni mio fijo a lavorare con te”. Così sarà difatti. Manolo viene arruolato, più tardi anche Mirko. So’ ragazzi, ma gli viene commissionato come prova iniziatica un omicidio. Puntualmente eseguito. Ma la carriera criminale non sarà quella attesa da Mirko e Manolo, parcheggiati sul fronte delle prostitute rumene gestite dal clan. I due ex psichelli fremono, vorrebbero riprendere a sparare, fare un salto all’insù nella scala gerarchica. Mi fermo qui, altrimenti sono spoiler. Diciamo che la storia a questo punto sembra guardare in direzione Scarface di De Palma, film adorato in tutti i milieu criminali del mondo, tant’è che ogni tanto in qualche irruzione di polizia in una qualche camorra o triade salta fuori il poster con Al Pacino. La sceneggiatura presenta qualche vistosa crepa (ma vi pare sensato che il boss, sentendosi dire dal padre “vi abbiamo fatto fuori l’infame, adesso ricompensateci, dateci da lavorà” risponda sì, va bene, accomodatevi, domani si comincia, e non dica invece “ma chi ve vole voi? chi siete? chi ve l’ha chiesto? ma tornatevene a casa vostra”), gli eventi si succedono meccanicamente e a blocchi giustappostii, senza suture e snodi. Un film rigido che ingabbia i suoi personaggi in una linea narrativa annunciata e predefinita. Ma c’è del buono in questo La terra dell’abbastanza (non so cosa voglia dire il titolo, ma è un bel titolo; quello internazionale è Boys Cry). I fratelli D’Innocenzo ce la fanno nonostante tutto a scostarsi rispetto ai codici del cinema neocoatto romano-criminale. Il focus loro non è lo spettacolo del crimine, lo show del massacro, ma sono i due protagonisti sciagurati, la loro inossidabile amicizia, le loro storie di famiglia, il vuoto anzi il niente in cui si muovono. E i due registi sono bravissimi a farli parlare in quel mumble-mumble romanesco che ha per antenato remoto la lingua dei ragazzi di vita di PPP. L’insulto più bruciante è il solito, con qualche rammodernamento: bocchinaro! A frocio! A frocio negro!, a conferma che tutti i pride del mondo nulla possono contro il machismo delle periferie. Ma a rendere davvero interessante e consigliabile La terra dell’abastanza è il senso del tragico di cui è intriso. Questo film avrà tanti difetti, e li ha, ma non è mai piacione e paraculo, e sa essere all’altezza o alla bassezza dei suoi due protagonisti sospesi tra innocenza e ferocia, e del loro destino di sconfitti. La carriera criminale di Mirko e Manolo è una discesa all’inferno, questo ci raccontano i due D’Innocenzo. Siamo più dalle parti di Accattone e Mamma Roma che dei Jeeg Robot, anche se la barbarie è infinitamente maggiore. La Roma periferica e slabbrata l’abbiamo vista tante volte, ma così livida no. Applausi alla fine. Resta da vedere quanto abbia contato la presenza degli italiani di Berlino.