Season of the Devil (Ang Panahon Ng Halimaw) di Lav Diaz. Con Piolo Pascual, Shaina Magdayao, Pinky Amador, Bituin Escalante, Hazel Orencio. Competition.
Difficile che vinca l’Orso d’oro che i pronostici gli assegnavano di default. Stavolta Lav Diaz, il maestro della lunga durata (anche se qui passa dalle abituali otto ore a solo quattro) e del cinema più autoriale che ci sia, non convince. E quelli che son sempre stati i punti di forza del suo fare cinema diventano insopportabili manierismi. Raccontando di un poeta-martire perseguitato dalla squadracce di Marcos nelle Filippine anni Settanta, mette in scena una sacra rappresentazione cantata e salmodiata. Idea spiazzante. Ma è questa commistione musicale a essere goffa e imbarazzante. Voto 6+
Stavolta il Grande Autore venuto dalle Filippine, già vincitore del Pardo a Locarno e del Leone a Venezia, già vincitore di un premio importante tre anni fa proprio qui alla Berlinale con uno spossante film di otto ore e mezzo, stavolta ha convinto pochi, anzi nessuno. Nemmeno i fedeli di stretta osservanza del culto Lav Diaz stavolta si sono genuflessi. E nemmeno i cinefili che lo seguono da Fuori orario e hanno sempre accettato tutto: il suo cinema ipnotico della lunga, lunghissima durata – anche nove ore e più-; gli eterni piani sequenza e le altrettanto eterne inquadrature a camera fissa dove a muoversi tutt’al più è qualche fogliame di foresta; l’autorialità muscolarmente esibita; il bianco e nero altissimo, rigoroso, sublime usato come arma contundente e intimidente nei confronti dello spettatore. Un cinema che da ogni fotogramma proclama la sua statura di capolavoro. E qualche volta lo è, lo è stato. Non stavolta però. Stavolta il patto tra Diaz e il suo fedelissimo e adorante pubblico si è spezzato. Pur con un’autoriduzione a sole – insomma – quattro ore (come The Woman Who Left Leono d’oro a Venezia 2016), Diaz con questo Season of the Devil strema e sfianca los tesso anche i più resistenti festivalisti. Oltretutto la Brlinale l’ha sadicamente programmato per la stampa la sera, quando già sei provato da una giornata di spostamenti frenetici da una sala all’altra. Capolavoro annunciato, vincitore annunciato, e invece. Difficile dire cosa non funzioni, perché gli ingredienti frullati dal Maestro sono i suoi di sempre. Anche la storia sembrava perfetta per mettere d’accordo tutti. Nelle Filippine fine anni Settanta, regnante e opprimente il dittatore Marcos, dilaga la paranoia anticomunista. Squadracce paramilitari si organizzano in tutto il paese sotto la regia occulta del regime per stanare e far fuori i rossi. Sospettato di esserlo è il poeta dalla parte del popolo Hugo Haniway, giovane e bello, con già l’aureola del santo, venerato da una schiera di pie donne e di fedeli. Solo che a un certo punto ha una crisi diciamo involutiva, dimenticando la resistenza umana contro l’oppressore, ma tornerà con rinnovata rabbia in prima linea dopo che la sua donna è finita nelle mani della squadraccia locale. Squadraccia della morte capitanata da una creatura androgina, è uomo?, è donna?, di ferocia belluina. Un calvario. Una via della croce. Una parabola cristologica. Messa in scena da Lav Diaz come una sacra rapresentazione popolare, in un ritualismo peraltro da sempre inscritto in un cinema votato alla contemplazione, alla rarefazione, alla purificazione da ogni scoria estetica. Ma a far deragliare il film, che nella sua zona centrale sembra decollare per poi purtroppo riavvitarsi, è il tentativo maldestro di farne una specie di spiazzante e brechtianamente straniante musical, un Jesus Christ Superstar risagomato sulle tradizioni sonore e canore filippine, con alcuni pezzi alcuni abbastanza elaborati e benissimo cantati (come quello che possiamo chiamare lo Stabat Mater della donna impazzita cui hanno ucciso figlio e marito), ma con altri che sono poco più di una declamazione salmodiata. Con effetti francamente imbarazzanti (c’è un La la la la ripetuto all’infinito, singolarmente o in coro, che è pura zavorra, e che nessun brechtismo salverà mai). Quello che altre volte – di film di Diaz ne ho visti nove comprendendo questo – era cinema del sublime, adesso sembra manierismo e narcistica celebrazione del proprio genio. Disturbano la lentezza, l’esibito visrtuosismo, la coazione a ripetere delle stesse inquadrature rifatte infinite volte. In The Woman Who Left (che sta per uscire in Italia) Diaz era riuscito a rendere narrativo il suo cinema, qua fa un passo e anche più di un passo indietro sprofondando nei suoi vezzi. Poi, certo, vedi certi filmacci del concorso, come l’ignobile e inammissibile eppure ammesso Touch Me Not di Adina Pintilie, e allora meglio cento, mille Lav Diaz, anche sbagliati come questo. Strane le affinità tra questo film e il fondamentale e migliore Act of Killing di Joshua Oppenheimer. Tutti e due parlano di milizie anticomuniste anni Settanta pilotate e usate da regimi dittatoriali del Pacifico (in Diaz le Filippine di Marcos, in Oppenheimer l’Indonesia di Suharto), e in tutti e due si contamina il cinema di denuncia con la forma del musical. Però la ricetta originale resta di Oppenheimer. Che Lav Diaz gli abbia dato un’occhiata?
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