Recensione: LADY BIRD, un film di Greta Gerwig. Discreto, godibile, dignitosisssimo, ma non da Oscar, suvvia

Lady Bird, un film di Greta Gerwig. Con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Tracy Letts, Lucas Hedges, Timothée Chalamet.
Candidato (tra gli altri) all’Oscar del miglior film e a quello per la migliore regia. Con forti chance di prendersi uno dei due. Ma se lo merita o anche qui bisogna tirare in ballo l’onda del #metoo che sta favorendo il cinema delle donne? Cercando di guardare, e giudicare, Lady Bird al di là dell’ingombrante carico extracinematografico che gli è piombato addosso, vien da dire che si tratta di un buon prodotto. Dignitosissimo. Con la sua esemplare, troppo esemplare, storia di formazione di una ragazza nella provinciale Sacramento: un personaggio in cui è facile intravedere la stessa regista Greta Gerwig (qui al suo primo film). E però da lei ci si aspettava di più. Lei che come attrice ci aveva dato personaggi femminili deragliati e eccentrici. Voto 6 e mezzo

Lady Bird

Stanno facendo di tutto per renderlo odioso, questo Lay Bird che di suo antipatico non è. Anzi carino, caruccio, amabile, godibile. Però mai, nemmeno per un momento, un film memorabile e importante, di quelli che ti strappano dentro e ti aprono a nuove visioni, sguardi, prospettive. Un comfort movie che rassicura, conferma le tue certezze e mai le fa vacillare inducendoti, forzandoti a un altro pensiero. Che dev’essere IMHO la mission del cinema vero, e non solo del cinema. Quando dico un filo paranoicamente “stanno facendo di tutto per” (prendersela con “loro”, non precisando chi stia dietro al soggetto plurale ma lasciandolo in un indistinto insieme, è sempre un sintomo persecutorio), mi riferisco a coloro che spingono oltre ogni ragionevolezza Lady Bird tra i massimi film dell’anno, da premiare più che per i suoi meriti intrinseci in quanto di una regista donna e narrante una storia tutta femminile di crescita, formazione, iniziazione al mondo adulto. Sull’onda, anche se nessuno lo ammetterebbe neanche sotto tortura dell’inquisizione, del #metoo e del parente movimento Time’s Up. Che, sorti in seguito al caso Weintein, si stanno ormai configurando come una virtuosa (e rischiosa per le libertà) crociata, andando come esito indiretto a favorire nell’industria cinema le donne anche quando non sarebbe il caso (a meno di considerare che sia sempre il caso quale risarcimento alle vittime del sofà del produttore e altri soprusi: ma io, scusate, continuo a pensare che si debbano riconoscere i meriti in base alle opere, non al genere di chi le realizza, qualunque genere esso sia). E manca ormai solo un pugno di ore all’assegnazione degli Oscar in cui Lady Bird è tra i nominati per il migliore film e Greta Gerwig per la migliore regia (in una cinquina dove, per dire, non compare il sommo Spielberg di The Post, uno che alla Gerwig potrebbe impartire qualche utile lezione), e in odore dell’uno o dell’altro Oscar perché è il tempo delle donne e il momentum sta dalla loro parte. E vorrà pur dire qualcosa, come sintomo dello Zeitgeist e anche come inconscio pronostico degli Oscar, la nuova copertina di Time con Greta Gerwig di rosso vestita, di profilo e in posa presidenziale, con quell’un po’ sinistro e minaccioso “How women are redirecting Holywood”: mi allarma quel ridirecting con il suo sottinteso di rieducazione, redenzione, riaggiustamento anche morale della pervertita Babilonia maschile già di celluloide. Redenzione a opera delle donne naturalmente. No, grazie. Basterebbe questo a rendermi insopportabile Lady Bird. Ma bisogna aggiungerci anche la velocità con cui la Gerwig, fino a ieri icona del cinema indie e di un’ironia per niente accomodante e anzi parecchio aspra, e incarnazione di una femminilità filmica pazzariella e perfino anarchica, è salita sul carro dei nuovi moralizzatori, prendendo tra le prime le distanze da Woody Allen con cui aveva lavorato solo, e in un ruolo meno che minore, in To Rome with Love. E al quale però deve molto quale maestro di un cinema della nevrosi innaffiato da un’ironia insieme distanziante, anestetizzante, e rivelatrice di abissi nascosti, cinema da cui la Gerwig già attrice e sceneggiatrice e ora regista ha preso moltissimo, se non proprio tutto (vedi la sua alleanza di anni e per qualche film con Noah Baumbach, che dello humor yiddish-newyorkese di Woody Allen è tra gli eredi conclamati). Insomma, la ben conosciuta traiettoria da rivoluzionaria (diciamo autrice di un cinema differente, non così mainstream) a pompiera la nostra già adorata e adesso non più G. Gerwig l’ha percorsa in un lampo, il che non le fa onore.
Ora, con tutto questo carico extracinematografico addosso a Lady Bird – dal metooismo alla copertina di Time che suona come l’investitura della Gerwig a lader di una battaglia – come lo si potrà giudicare con obiettività, con quale sguardo lo si guarderà? Va bene, ci provo, a non farmi influenzare. E, in tutta franchezza, dico che dall’esordio registico di Gerwig, che amo almeno dai tempi dello sghembo Damsels in Distress dov’era una fanatica che si metteva in testa di raddrizzare i maschi del suo college, e che ho continuato ad amare in Frances Ha e Mistress America per le sue figure di donne deragliate e inconsciamente ma fattivamente sovversive, mi aspettavo parecchio di più. Invece,  prodotto decorosissimo, ottimanente scritto (i dialoghi sono la parte migliore, la regia resta invece sempre scolastica tenendosi a prudente distanza da ogni azzardo), ma inesorabilmente adagiato in una medietà in grado di catturare un largo pubblico, molto più largo di quello dei film del sodalizio Gerwig-Baumbach, e perlopiù composto da donne. Raccontandogli una storia di formazione femminile nella quale identificarsi, solo superficialmentre ribelle e anticonformista e invece perfettamente allineata all’ideologia oggi trionfante dell’autorealizzazione. Quel mito dell’essere se stessi a ogni costo e contro tutti che è derivazione e insieme sintomo della prevalenza dell’Io narciso già stigmatizzata a suo tempo con memorabili saggi da Christopher Lasch. Ora, di storie di ragazze che si ribellano alla famiglia, che cercano di scappare dai ristretti orizzonti della provincia e dal destino annunciato di future mogli-e-madri quante ne abbiamo viste e lette? Dite che non sono mai abbastanza? Che ce n’è sempre bisogno? Che alle bambine, alla ragazzine, alle giovani donne occorre, oggi più che mai, insegnare a prendere in mano la loro vita e il loro destino? Sì, va bene, però io di certe narrazioni esemplari e, al di là della loro apparente anticonvenzionalità, edificanti e pedagogico-didascaliche, non ne posso più.
E in questo paradigma narrativo rientra in pieno purtroppo Lady Bird, al di là della sua scrittura arguta e dicerti suoi ritratti, di ambienti e di persone, alquanto corrosivi. La delusione di questo film sta nella sua piacioneria, in una Greta Gerwig che mostra di conoscere benissimo l’arte dell’affabulazione e dello storytelling ma sembra volersi redimersi dall’eccentricità dei suoi personaggi del passato. Non aiuta, in un film chiarissimamente autobiografico (anche se è difficile capire quanto lo sia e quanto invece se ne discosti), che Gerwig abbia affidato il main character, il suo alter ego, a Saoirse Ronan che ha sempre un’aria tanto dabbene e giudiziosa anche quando non dovrebbe esserlo, e che ha anche qualche anno di troppo rispetto al personaggio, e si vede chiaramente. Gerwig se ne sta dietro la macchina da presa, ma la ragazza Christine che vuole farsi chiamare da tutti, a partire dalla madre recalcitrante, Lady Bird, molto le somiglia. Siamo nei primi anni Duemila a Sacramento – dove la Gerwig è nata e cresciuta, e dove già tornava per un tristissimo Natale in Frances Ha -, in una famiglia con una madre dura fino alla tirannia nel predicare il primato del principio di realtà sul principio del piacere, un padre dolce e perdente, un fratello non di sangue assai brillante. “Anybody who talks about California hedonism has never spent a Christmas in Sacramento”, Chi parla di edonismo californiano non ha mai passato un Natale a Sacramento: parole di Joan Didion che lì è nata e poste dalla sua concittadina Greta Gerwig all’inizio di Lady Bird, e vengono in mente le invettive di tanti – anche Guccini, why not? – contro la pochezza e la meschinità della vita di provincia. (Digressione: al cinema è proprio l’anno di Sacramento: vengono da lì, e lì tornano alla fine da trionfatori, i tre amici che in Assalto al treno di Clint Eastwood fermano lo jihadista sul TGV Amsterdam-Parigi). Al centro del film c’è lei, l’autobattezzantesi Lady Bird, insofferente delle regole dettate in famiglia dalla madre, della scuola cattolica in cui studia, delle spocchiose compagne che vengono dalla parte giusta della città, quella con i soldi. E ansiosa di andarsene là sulla East Coast, meglio se a New York, dove ferve la vita di bohème con i suoi intellettuali e le sue sperimentazioni esistenziali. Non sta bene niente a Christine/Lady Bird, nemmeno i maschi coetanei, e quando penserà di aver trovato finalmente un ragazzo da amare arriva una delusione che è meglio non spoilerare. Sicché la verginità dovrà perderla – è un passaggio obbligato in questo genere cinematografico – con un tronfio narcisetto finto intellettualino maudit, lamentandosi che le sia toccato “di star sopra anziché sotto” (vado a memoria), ed è battuta alla Wody Allen. Tutto è abbastanza ovvio in questa storia che è anche quella di una piccola Bovary di provincia: anche, soprattutto, le ribellioni. A chi poi? A una madre che deve sfiancarsi come infermiera per portare a casa i soldi dopo che il marito è stato licenziato? A una scuola cattolica di suore peraltro non così chiuse al nuovo (e cattolica, per inciso, è anche la scuola dei ragazzini di Assalto al treno di Eastwood)? Le scene di acuta osservazione non mancano. Il musical messo in scena da un prete-regista. Gli scontri con la madre. Ma tutta la parte sull’amicizia tradita e poi ritrovata con la compagna sovrappeso sa di insopportabile cliché, e l’ostentata aria di superiorità di Christine/Lady Bird, quel sussiego da “in questo cesso di posto non mi meritate”, non aiutano a farcela piacere. Di buonissimo c’è il riportarci, attraverso un’educazione sentimentale e alla vita, quei primi anni Duemila subito dopo l’Apocalisse con i riti qutidiani dell’America qualunque già ferita nel profondo, la musica pop, l’abbigliamento, i sogni e le rassegnazioni. Certo, prima di liquidare come buono ma qualunque e abbastanza deludente questo coming of age femminile rispetto ai precedenti film di attrice e sceneggiatrice di G. Gerwig, pensi che anche i romanzi di quotidiane femminilità e qualunquità di Jane Austen furono a loro tempo ampiamente sottovalutati. Salvo dopo un paio di secoli essere ancora tra noi vivi e vispissimi, e molto amati e riveriti. Se insomma Lady Bird nascondesse dietro la sua medietà la fibra di un futuro classico? Io intanto dichiaro il mio non-entusiasmo. Poi tra un paio di secoli si vedrà, anzi vedranno.

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3 risposte a Recensione: LADY BIRD, un film di Greta Gerwig. Discreto, godibile, dignitosisssimo, ma non da Oscar, suvvia

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