Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie), un film di Roman Polanski. Sceneggiatura di Olivier Assayas e Roman Polanski. Con Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Josée Dayan, Noëmie Lvovsky, Brigitte Roüan. Da un romanzo di Delphine De Vigan.
A 84 anni il grande esule ritorna con uno psycho-thriller dei suoi, un confronto-scontro cannibalico tra due donne. Con una lettrice che si installa nella vita di una scrittrice e parassitariamente la divora dal di dentro. Ribaltoni e colpacci di scena come vuole il genere. Siamo nella claustrofobia malata di Rosemary’s Baby e Repulsion, e naturalmente Polanski ci si muove benissimo. Gran duello di signore, con Eva Green che man mano ruba la scena a Emmanuelle Seigner. Voto 7+
Ripropongo, con qualche aggiornamento, la recensione che ho scritto a Cannes lo scorso maggio dopo la presentazione al festival, fuori concorso, del film.
(Ma perché un titolo italiano così insulso? Perché non mantenere l’originale e assai pertinente Tratto da una storia vera – D’après une histoire vraie?)
In Feud, la serie che ricostruisce i retroscenadi Che fine ha fatto Baby Jane?, tutto parte da una Joan Crawford ormai ai margini del sistema cinema che ordina alla sua governante di ramazzare in libreria tutto quanto abbia una figura femminile in copertina e di portarglielo: è alla ricerca disperata di un ruolo che la rilanci, da qui l’incarico a Mamita, come chiamano in casa l’assistente tuttofare. E sarà Crawford ad adocchiare tra tanta carta il romanzo da cui poi sarà ricavato l’epocale film di Robert Aldrich (che, beffardamente, non rilancerà la sua carriera ma quella dell’odiata rivale di molte stagioni Bette Davis). Per dire quanto serva passare ogni tanto per scaffali virtuali e non, onde pescare una bella parte. L’ha fatto anche Emmanuelle Seigner, moglie e attrice feticcio di Roman Polanski, con la differenza non da poco rispetto alla Crawford di esserci andata direttamente lei in libreria. Dove ha scoperto il romanzo di Delphine De Vigan D’après une histoire vraie proponendolo poi al consorte. Il quale ha detto subito sì, ha chiamato Olivier Assayas per la sceneggiatura (ottima mossa, che ha procurato a Polanski l’immediato consenso della nouvelle critique per la quale Assayas è un autore totem) e oplà, dopo qualche travaglio produttivo per il budget non elevatissimo, ecco il film. Seigner ha visto giusto, l’intreccio è difatti squisitamente polanskiana, riallacciandosi a ossessioni e climi e schemi narrativi da sempre presentii nella filmografia del grande esule, in particolare Cul-de-sac e la cosiddetta trilogia dell’appartamento composta dai claustrofobici Repulsion, Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano. Si svolge quasi tutto in interni opprimenti Quello che non so di lei, strutturato secondo i codici del thriller psicologico di cui Polanski è un maestro, se non proprio il fondatore e codificatore, con ampie oscillazione tra realtà e fantastico-allucinatorio. Storia di cannibalisno psicologico tra due donne, con una succube e un’incube, con l’ospite che si insinua nella vita dell’altra, la consuma parassitariamente dal di dentro, ne diventa la padrona in un ribaltamento classico delle parti (e qui non si può non pensare, tra i molti precedenti cinematografici, a Il servo di Losey-Pinter). Quello che non so di lei è inquietante (per quello che racconta) e insieme rassicurante per come ripercorre binari narrativi ampiamenti utilizzati, e anche il twist finale, un ribaltone che tutto riscrive e ci fa riconsiderare, rientra in fondo nelle regole del genere. Una prevedibile imprevedibilità. Il risultato è un film solido e compatto, di una voluta classicità, con una trama forte che tutto sorregge e dà modo a Polanski di puntare sulla pura mise en scène, sulla costruzione di atmosfere e la direzioni degli attori.
Protagonista una scrittrice, come esige il cliché, in crisi (si chiama Delphine, come la De Vigan, autrice del romanzo da cui il film è tratto, e vorrà pur dire qualcosa questa eco autobiografica). Reduce da un libro in cui ha raccontato traslando ma non troppo la vita della madre, adesso si ritrova lì col computer aperto, lo schermo vuoto e nessuna idea su come riempirlo. Intanto un misterioso nemico, o nemica, la destabilizza con letteracce anonime in cui la accusa di aver fatto i soldi mettendo in piazza sofferenze e panni sporchisimi di casa (lettere che arrivano, come nella più pura tradizione cineletteraria, vedi Il corvo di Clouzot, per posta, mica in forma digitale). Chiaro che la povera Delphine, già con la vita un po’ così da signora di successo a corto di affetti – il compagno piacionissimo, che non si capisce se faccia l’agente letterario o l’editore o il giornalista, è sempre in giro di qua e di là a incontrar scrittori, la lascia sola solissima – è bell’e pronta per un qualche collasso psichico. Difatti, quando una lettrice si fa avanti per complimentarla con parole un filo meno sdate delle altre groupies, lei subito ne resta lusingata, anche affascinata. E la signorina, che dice di chiamarsi fin troppo simbolicamente Elle, intuite le fragilità della bestsellerista acclamata quanto sola, si insinua a poco a poco nella sua vita, le diviene indispensabile. Riesce a farsi ospitare a casa sua (che errore!), esige che Delphine vada con spietata sincerità e facendosi del male nel fondo di sé per cavarne il materiale di un libro autobiografico, la divora psicologicamente, diviene la sua stampella e la sua carnefice. Due donne, e una ostaggio dell’altra, sempre più pazza, sempre più sadicamente padrona. Esattamente come in Che fine ha fatto Baby Jane?, con la povera Joan Crawford in balia della fuorissimo di testa Bette Davis. Tutti a citare (del resto, lo si dice anche nel pressbook) Misery non deve morire, il film e il libro di Stephen King, quando a me l’analogia pare assai superficiale, mentre son molte di più non solo con il capolavoro camp di Robert Aldrich ma anche con il Bergman più radicale, quello di Persona, o con i già citati precedenti polanskiani. La follia che sboccia a porte chiuse è puro Repulsion, la povera donna prigioniera (e pure avvelenata) nella propria casa è Rosemary’s Baby, l’assimilazione di una personalità all’altra è L’inquilino del terzo piano. Polanski l’ha praticamente inventato questo genere, e non deve niente a nessuno. E dunque qui legittimamente rifà se stesso e il proprio cinema come nessuno potrebbe mai. Certo non è il caso di aspettarsi radicali revisioni del paradigma così ben messo a punto da Polanski nei lontani anni Sessanta-primi Settanta, la migliore stagione cinematografica della sua vita. Anzi è tutto rigorosamente polanskiano, come peraltro erano hitchcockiani, riconoscibili, i film più maturi di Hitchcock. Gran duello di signore, e, anche se Seigner è la protagonista prima, Eva Green man mano le ruba la scena. Esattamente come in Che fine ha fatti baby Jane? dove Joan Crawford, che pure aveva avuto l’idea del film, si vide superata dalla trionfante Bette Davis. Ma pure questo è una ragione di più per andarsi a vedere Quello che non so di lei.