Parlando (un po’ tardi) di Oscar. Tutto prevedibile, e una sola sorpresa

La dispersione dei premi tra tanti titoli non riflette chissà quale scelta diplomatica dell’Academy, ma, semplicemente, la buonissima qualità media dei candidati. L’Oscar maggiore a The Shape of Water non è uno scandalo, anche se c’erano almeno tre-quattro film migliori. In tempi di metooismo, e dopo la cover di Time a Greta Gerwig, si dava per trionfatore il suo Lady Bird, rimasto invece a zero Oscar. Ed è stata la sola sorpresa di una serata piatta e prevedibile.

Foto dal sito dell’Academy

Esprimo la mia – direte: non così indispensabile – opinione sugli Oscar con qualche giorno di ritardo. Anche perché nella purtroppo epocale notte del 4 marzo, quella in cui l’Italia ha deciso di avviarsi al suicidio con il più sciagurato responso elettorale dei suoi anni repubblicani, ho preferito seguire (fino alle due e mezzo/tre, non oltre, che tanto già il disastro della vittoria populista era chiaro e non occorreva rubare altro tempo al sonno) la maratona elettorale a quella del premio-più-importante-del-mondo. Nobel permettendo. Quando la Storia chiama, e il 4 marzo sarà Storia per la prevalenza nel ‘chiuso dell’urna’ del cretinismo di massa, cosa volete che sia una manciata di lustrini con uso di red carpet nella remota Los Angeles? Qualcosa che mi ha definitivamente fatto capire come, pur amando senza rimedio il cinema, io non riesca a vivere in una bolla cinefila e cinemaniacale, e che il reale, pur con i suoi disastri e sfasci come nel caso di questa tornata elettorale, finisca sempre col sedurmi di più.
A tenermi lontano (televisivamente) dalla cerimonia del Dolby Theater è stata anche la retorica barbosa del metooismo e la temuta prospettiva di dovermi ingurgitare tra tante statuette dorate quanto asessuate, e abiti Dior e Armani Privé e Balenciaga, roboanti proclami di suprematismo femminile e stucchevoli speech sulla necessità di depurare il cinema da ogni traccia di (presunta) sporcaccioneria maschile. Basta, je vous en prie. Dopo il deprimente finale di Berlinale con i due premi maggiori (Orso d’oro più Orso d’argento della giuria) assegnati a due registe in-quanto-donne perché di meriti nelle loro opere non se ne sono intravisti, mi prefiguravo già il trionfo di Greta Gerwig e del suo Lady Bird. Film caruccio e anche qua e là ispido, acido e duro, ma non opera da massimo premio soprattutto per via di un finale aggiustatutto che lo sprofonda nel medio-mediocre. La Gerwig in copertina di Time vestita di rosso e in posa presidenziale di qualche giorno prima m’era sembrato una chiara indicazione di quanto sarebbe successo al Dolby Theater. Sicché, mi son detto, a letto che è meglio. Invece i fatti mi hanno dato torto. Lady Bird non ha avuto neanche uno straccio di premio e, ho letto e poi visto su Youtube, il metooismo s’è potuto sfogare solo in qualche lacerto di discorso e nel perentorio invito di Frances McDormand, annunciatissimo Oscar come migliore attrice per Tre manifesti a Ebbing, alle signore nominate presenti in sala ad alzarsi. Stand up! (qualcuna raggiante, altre meno). Chissà come ci sarà rimasta la Gerwig a fine serata, lei che aveva condotto una campagna elettorale perfetta, compreso un siluro non richiestole a Woody Allen, e già incoronata quale donna-guida della nuova Hollywood.
È stata la sola sorpresa di una serata – mi riferisco puramente a premi e premiati – che ha in gran parte confermato i, peraltro facili, pronostici. Si sapeva come La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro fosse assai ben piazzzato, il dubbio era se si sarebbe preso entrambi gli Oscar maggiori – migliore film e migliore direction – o ci sarebbe stata una spartizione come l’anno scorso, quando Damien Chazelle vinse come regista ma il suo favoritissimo La La Land perse nella categoria miglior film (dove prevalse il secondo me molto bello Moonlight). Invece La forma dell’acqua li ha vinti tutti due, più altri due, musica originale e Production Design. Quattro è un bel numero, ma resta molto al di sotto delle tredici nomination ottenute. Questi sono stati gli Oscar dai quali nessuno, Gerwig a parte, è uscito scontento e a mani vuote, dove (quasi) tutti hanno avuto la loro statua, maggiore o minore poco importa. Una lista di premi che sembra stilata secondo un manuale Cencelli non dichiarato. Prevedibili e non immeritati i due premi maggiori, e quelli a attori e attrici protagonisti e non protagonisti: di Frances McDormand e Gary Oldman si parlava da mesi. Come si sapeva che l’unico Oscar davvero alla portata di Call Me by Your Name di Guadagnino fosse quello per la sceneggiatura non originale, co-firmata dal glorioso novantenne James Ivory presentatosi sul red carpet – ed è stata una della scarse sorprese della soirée – con una T-shirt con impressa la faccia di Timothée Chalamet. Difatti così è stato, con l’Academy che non ha perso l’occasione di stabilire con il premio a Ivory il record del signore più anziano mai insignito di Oscar non alla carriera ma per meriti recenti e freschi sul campo. E però mi aspettavo che venisse premiata pure un’altra novantenne nominata, Agnès Varda, nella categoria documentari con il suo meraviglioso Visages Villages, e invece niente, ha vinto Icarus (sul doping sportivo russo). Peccato.
Non credo che i premi siano stati il frutto di una deliberata strategia diplomatica volta a non scontentare nessuno. Se c’è stata dispersione su più titoli e registi e attori è per la buonissima qualità media dei nominati, di sicuro superiore a quella degli anni precedenti (nel 2017, per dire, c’erano cosucce e cosacce come Lion e Il diritto di contare), qualità che sta a segnalare la vitalità del cinema semi-indipendente anglofono, quello che da molto tempo domina il panorama degli Oscar.
La forma dell’acqua si merita quel non poco che ha avuto? Ma sì, non è stato mica uno scandalo, anche se si è ripetuto lo scenario veneziano con il film di Guillermo Del Toro premiato con il Leone d’oro quando c’erano (nella mia classifica) almeno cinque film migliori. Qua agli Oscar di meglio in my opinion c’erano, nell’ordine,  Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, The Post di un sontuoso Spielberg, Dunkirk e Chiamami col tuo nome. E però era facilmente intuibile come il primo, benché prediletto dai recensori (90 lo score sull’aggregatore di reviews Metacritic), non avrebbe raccolto i voti della maggioranza dell’Academy: troppo blasé e idiosincratico, troppo sprezzantemente personale, il vero titolo diverso e alieno dei nove finalisti, il segno della superiore libertà raggiunta dal suo regista il quale, dopo The Master, ha interrotto ogni conessione con il gusto mainstream per raccontare, come gli autori veri e grandi, solo le proprie ossessioni. Del resto il sistema Oscar, da sempre sensibile all’economia e agli incassi dei suoi candidati, come avrebbe potuto premiare un film ampiamente minoritario che ha raggiunto faticosamente i 20 milioni al box office Usa? Che poi non è neanche così poco, vista l’assoluta eccentricità e non classificabilità di The Phantom Thread, ma che stinge al confronto dei 60 milioni realizzati (finora) da The Shape of Water o dei 50 di Lady Bird e Tre manifesti a Ebbing. Nota neanche troppo a margine: il paese in cui Il filo nascosto sta andando meglio è l’Italia, e davvero si stenta a capire il perché. Forse per il nostro senso della moda, essendo stato erroneamente descritto e recensito come un racconto di vestiti, passerelle, atelier, couture e couturier, mentre è, nel suo profondo, altra cosa, e la moda è solo la lingua attraverso cui PTA scrive il suo discorso filmico.
La lista degli Oscar 2018 riflette dunque un equilibio di fatto tra i concorrenti, senza il titolo che si staccasse nettamente e potesse fare da rastrellatore di statuette, e non è detto sia un male. La buonissima qualità media sta anche a significare come il cinema semiautoriale americano, divergente dai blockbuster fracassoni ma pur sempre attento a cercare un pubblico, stia piuttosto bene e come l’eclisse di quella macchina perfetta da Oscar che era stata per anni, decenni, casa Weinstein, non abbia inciso sulla quantità e qualità dell’offerta. L’Orco molestatore, caduto in disgrazia insieme al suo marchio di produzione e distribuzione, è stato il grande assente e l’ossessione assai presente di tutta la serata, senza che un suo film fosse tra i nominati (l’unico che avrebbe avuto qualche chance è stato piallato via sull’onda dei noti fatti, intendo il più che discreto Wind River di Taylor Sheridan vincitore a Cannes-Un certain regard di un premio per la sceneggiatura ritirato dallo stesso Harry Weinstein con un lungo speech assai progressista e antitrumpista: gli ultimi suoi fuochi prima della caduta). A Dunkirk sono andati solo premi tecnici, ed è un po’ poco vista l’immensità del progetto by Christopher Nolan, oggi colui che meglio sa applicare la lezione kubrickiana del grande e magniloquente cinema con dentro anima e pensieri. Due Oscar tecnici perfino al flop dell’anno, Blade Runner 2048, non necessario per quanto benissimo girato sequel di un falso capolavoro. Get Out si porta a casa quello per la migliore sceneggiatura originale, e ci sta, perché il film di Jordan Peele è tra i più sottili e intelligenti della stagione, benché nei modi spicci del cinema di genere, e una rivelazione. Per niente amato in Italia, ma collocatosi assai in alto nella considerazione e nelle clasifiche di due magazine fondamentali come il britannico Sight & Sound e i francesi Cahiers du Cinéma. Coco migliore animazione, e non c’è niente da dire. La vittoria del cileno Una donna fantastica quale migliore film in lingua straniera è una sorpresa solo per chi non aveva dato un’occhiata alle recensioni americane, molto positive, e ai più che discreti incassi sul mercato Usa/Canada. Avrei preferito Loveless, ma come ha scritto un recensore Usa, troppo poco comfort movie, troppo disturbante e allarmante per essere premiato da una giuria centrista e moderata come quella dell’Academy. Sconfitto, e meno male, il sopravvalutato The Square. Con l’Oscar al film di Sebastian Lelio è salita sul palco anche la sua protagonista, il/la transessuale Daniela Vega (cui si deve un’interpretazione controllatissima), e anche questo va in quota correttezza politica della serata. Quota in cui si collocano naturalmenti i premi alla coalizione ultra-arcobaleno di freaks, gay, donne, neri contro il maschilismo sciovinista-patriottardo di La forma dell’acqua e alla madre incazzata e combattente di Tre manifesti. E però consoliamoci, poteva andare peggio con la vittoria di Lady Bird e dell’ormai insopportabile (pensare che ci piaceva tanto ai tempi di Frances Ha) Greta Gerwig.

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