Museo, un film di Alonso Ruizpalacios. Con Gael García Bernal, Leonardo Ortizgris, Alfredo Castro, Simon Russell Beale, Bernardo Velasco. Compeittion. Orso d’argento per la migliore sceneggiatura a Alonso Ruizpalacios e Manuel Alcalá. Il film verrà distribuito in Italia (in data ancora da decidere) da I Wonder.
Gran successo alla Berlinale, dove ha poi vinto (non immeritatamente) il premio per la migliore sceneggiatura. Furto di pezzi maya al museo antropologico di Città del Messico: i guai per i due amici responsabili del colpo cominceranno subito dopo, come vuole il genere. Ma Museo va oltre l’heist movie per diventare, pur senza tirarsela, un’indagine sull’identità nazionale e l’inconscio di un paese. Arriverà in Italia. Voto 7

Alonso Ruizpalacios (a sx) e Manuel Alcalá con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura
Dal Messico – ormai una subpotenza in fatto di cinema da festival e da Oscar – è arrivata in concorso alla Berlinale questa commedia-con-furto assai godibile, un heist movie eterodosso nel suo andare ai confini estremi del genere fino a contaminarlo con il cinema socioantropologico, benissimo girato, incalzante, gonfio di buone idee anche se non proprio di massima simpatia. E son qua a chiedermi se il suo antipiacionismo dovuto soprattutto alla sgradevolezza del main character – antipiacionismo che di solito ritengo sano antidoto alla paraculaggine di tanto cinema accondiscendente verso la sensibilità media – non sia stavolta un limite. Comunque Museo è stato ottimamente accolto alla Berlinale, ottenendo buone-ottime recensioni internazionali e procurando l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura a Alonso Ruizpalacios (che poi è il regista) e a Manuel Alcalá. Spiega: la dicitura Orso d’argento non sta indicare il secondo premio in ordine di importanza dopo l’Orso d’oro, come ogni volta scrivono sciattamente e erroneamente i giornali italiani, ma ogni riconoscimento del palmarès oltre il vincitore. Quindi ecco l’ Orso d’argento gran premio della giuria, l’Orso d’argento per il migliore attore e quello per la migliore attrice, ecc., come si evince dalla lista dei premiati sul sito ufficiale della Berlinale. Già acquistato, Museo, per l’Italia da I Wonder, che a Berlino si è pure assicurato il tremendo e a mio parere inguardabile vincitore Touch Me Not di Adina Pintilie (sarà interessante vedere la risposta dello spettatore italiano).
Museo racconta a modo suo, e prendendosi amplissime libertà rispetto ai fatti, il clamoroso furto di 400 pezzi di arte Maya e mesoamericana realizzato ai danni del Museo antropologico di Città del Messico la vigilia del Natale 1985. Museo orgogliosamente voluto dallo stato quale simbolo e totem nazionale, a celebrazione della grandezza passata del paese. L’inizio del film, anche attraverso il ricorso a documenti visivi d’epoca, quello ci mostra, compreso il trasferimento nel nuovo museo tra ali di folla plaudente di un’enorme testa scultorea maya: a suggerirci che quanto vedremo in Museo non sarà un semplice Topkapi o Come rubare un milione di dollari e vivere felici in versione centroamericana, ma piuttosto, pur nei modi del caper o heist movie, un’indagine sulla precaria identità nazional-nazionalista – quanto c’entra l’eredità precolombiana nel sentirsi messicani? quanto invece la cultura spagnola dei conquistatori che quel mondo maya distrusse e alla quale fa ancora inconscio riferimento la borghesia del paese? – e sugli ambigui simboli che vogliono rappresentarla. Se questa è la compatta tela di fondo sul cui si scrive il racconto, il regista Alonso Ruizpalacios sta bene attento a non tediarci troppo andando dritto e spiccio ai suoi protagonisti e alle loro gesta. Il luciferino Juan (il sommo divo del LatinoAmerica Gael Garcia Bernal), laureando di famiglia medio-borghese, convince l’amico di sempre, e suo succube prediletto, Wilson a organizzare con lui il furto. Che riesce, solo che i guai cominceranno subito, a bottino appena incamerato. Cos’ha spinto Juan – lui, colto e iperconsapevole di cosa rappresentino quei pezzi maya – a tale sacrilegio? La fragilità di questo film complesso nonostante i suoi modi leggeri di commedia, destinato a sicuro successo internazionale, sta nel suo protagonista. Uno stronzo, un narciso con cui si fa fatica a solidarizzare. Non si capisce perché decida di fare quel colpo per cui tutto il paese si indignerà. Per esibizionismo testosteronico-giovanile? Per ribellismo anarcoide? Per odio alle istituzioni? Per avidità? Il lato migliore di Museo sta nel renderci evidente l’ambivalenza che lega il Messico moderno al suo passato. Il mondo e il tempo Maya come inconscio di una nazione, rimosso e sepolto e dunque eternamente ritornante a rivendicare la propria centralità. Ma il film vale anche per come ci mostra un pezzo della sua borghesia media e aspirazionale degli anni Ottanta, la vita in una città residenziale non lontana dalla capitale chiamata Satellite voluta dai suoi architetti come un segno e un sogno della ipemodernità del paese. Ed è rivelatore il viaggio ad Acapulco, snodo turistico-internazionale, punto di raccordo e insieme di contaminazione tra il Messico e il resto del mondo, il mondo più cosmopolita, cinico e colto (non manca nemmeno la cartolina del tuffo dall’altissimo della scogliera). Anche se poi Museo troverà il suo scioglimento narrativo e il suo senso tra le pieghe nascoste della relazione-plagio tra Juan e l’amico devoto e sempre consenziente Wilson. Alla fine si resta ammirati per come il regista Alonso Ruizpalacios, che proprio alla Berlinale qualche anno fa aveva ottenuto visibilità e premi con il suo b/n Güeros, sappia muoversi lungo i binari del cinema di genere e insieme scavare nei cunicoli dell’inconscio del suo paese. Gael Garcia Bernal al solito autorevole e di massima efficienza interpretativa, benché in un personaggio di almeno 15 anni più giovane. E si rivede sempre volentieri il larrainiano Alfredo Castro, qui impassibile e inflessibile padre borghese dell’odioso discolo Juan.
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