Recensione: TOMB RAIDER, un film di Roar Uthaug. Ma ce n’era proprio bisogno? E Alicia Vikander non è Angelina

Tomb Raider, un film di Roar Uthaug. Con Alicia Vikander, Dominic West, Walton Goggins, Daniel Wu, Kristin Scott Thomas, Derek Jacobi. Al cinema da giovedì 15 marzo 2018.
Nata in videogame, cresciuta al cinema con la faccia (e il corpo) di Angelina Jolie, torna in questo remake-reboot Lara Croft cacciatrice di tesori sepolti. Peccato che questo Tomb Raider di nuovo conio sia povero di idee e mezzi, un blockbuster aspirazionale. Ma la partita si gioca soprattutto sulla protagonista Alicia Vikander. Riuscirà a conquistare la platea maschile globale e a far dimenticare Angelina? A me Vikander ha ricordato Monica Vitti nel remoto Modesty Blaise: incantevole, ma fuori ruolo. Voto 4 e mezzo
Reboot e non remake, mi dicono gli esperti del ramo – categoria cui non appartengo -, perché più che rifare il lontano film con un’Angelina Jolie pre-Brad Pitt e pre-molte altre cose, si ispira alla penultima versione del videogioco di Lara Croft cacciatrice di tesori sepolti. Mah. Lascio ai nerd disquisire intorno al grado di fedeltà o infedeltà di questo nuovo Tomb Raider (fedeltà rispetto a che cosa, poi?). Che a me è sembrato davvero, reboot o remake o qualunque altra cosa sia, operazione di sconfortante povertà e pochezza. Di idee e di mezzi. Un blockbuster aspirazionale fatto in economia rispetto a un qualunque supereroistico Disney-Marvel, in gran parte concentrato – che così si risparmia sulle location – su un’improbabile isola selvaggia nel Pacifico al largo delle coste giapponesi. Con qualche truccheria digitale e basta così. Un inseguimento di cui non si sentiva il bisogno (a piedi, che così anche lì si risparmia sugli stunt), giusto per copiare gli ultimi Bond o la fondativa serie di Bourne, tutto sul molo e tra le barcacce ancorate sul lato sgrausoi del porto di Hong Kong, ma che è una cartolina in più dal mondo per lo spettatore. E pure buon lasciapassare per il mercato cinese. Ma, non nascondiamocelo, il destino di questo Tomb Raider e dei futuri possibili sequel si gioca tutto sull’attrice che è stata chiamata a interpretare Lara Croft, ovvero l’adorabile Alicia Vikander. Svedese con faccetta e modi furbi da scugnizza mediterranea, lontana a un’immediata lettura fisiognomica da quelle sgnore e signorine algide e/o bionde da sempre esportate a Hollywood dai regni vikinghi, Garbo, Ingrid Bergman e le altre. La si è conosciuta bene in film più arthouse e da festival che mainstream, da A Royal Affair fino a La luce tra gli oceani passando per The Danish Girl che le ha procurato due anni fa l’Oscar come migliore attrice non protagonista. Adesso il salto nel cinema neopopolare dell’action eroistico (ma in questo caso non supereroistico). Riuscirà Vikander a convincere stavolta non le giurie dei festival e degli Oscar ma il pubblico popcorn globale? Ho qualche corposo dubbio in merito, e comunque il responso arriverà alla fine di questo weekend che vede il lancio di Tomb Raider in mezzo mondo, partendo dagli Stati Unit e arrivando all’Italia. Se virtù di questo film, e di chi lo ha prodotto, è di non puntare sul corpo della sua protagonista, di non sfruttare curve e carne e pelle a fini di incasso, ci si chiede anche se una scelta così bon ton (e allineata in modo sospetto al metooismo: le sentinelle della correttezza politica avranno vigilato?) non rischi di alienare la platea di giovani maschi che di simili film sono il target naturale. Dove sono le tette?, è stato il grido di dolore lanciato da qualche insospettabile cinefilo su Facebook dopo l’anteprima stampa, dando voce alla delusione dei testosteronici spettatori presenti e futuri. Dite che non è la prima volta che un’attrice vera prova a superare, riuscendoci,  l’abisso che separa il cinema autoriale da quello internazional-popolare? Che se ce l’hanno fatta Scarlett Johansson (The Avengers, Lucy) e più recentemente Charlize Theron (Mad Max: Fury Road e Atomic Blonde) può uscirne vittoriosa pure Vikander? Che poi non sarebbe neanche la prima signorina con Oscar a buttarsi nel cinema di genere più commercialmente orientato, visto che anche Charlize Theron aveva già in salotto la sua statuetta Academy quando s’è decisa alla parte di tosta guerriera in Mad Max. Sì, però. Però nei casi sopra citati i corpi di Scarlett e Charlize venivano ampiamente valorizzati e exploitati dalla macchina da presa, le curve di ogni lato, A e B, offerte allo sguardo dello spettatore. In Tomb Raider niente di tutto questo. La Lara Crof di Vikander è una ragazzetta androgina di non immediato e travolgente presa sensuale, con figura assai fit e snella, ma non proprio curvacea. E anche quel pancino (piattissimo) che si intravede appena tra canotta miltare e pantalonacci non penso scatenerà tenpeste ormonali nelle platee giovinastre. Non che Vikander non sia sensuale, è il film che la vuole e la disegna così (per misurare la differenza, si veda per restare tra le eroine action la Gal Gadot di Wonder Woman). Si preciserà magari – da parte dela produzione – che non s’è voluto sfruttare il corpo femminile privilegiando di Vikander la caratura d’attrice (e già molto si parla di come abbia restituito i tormenti  e turbamenti di Lara Croft alle prese con il suo primo omicidio, per legittimissima difesa of course, ma sempre omicidio), ma resto dell’idea che i giovani maschi con ancora in mente e nelle gonadi la Jolie non si lasceranno convincere da tanta compunzione e retorica metooista. A me, vedendo la Vikander così fuori posto (non è mai credibile nelle scene più fisiche, come impacciata e imbarazzata, come lei stessa non credendoci per prima), è venuta in mente per analogia la Monica Vitti che, reduce dalle alienazioni antonioniane, venne catapultata negli anni Sessanta nella parte di Modesty Blaise, sorta di Bond al femminile, in un film diretto nientedimeno che da Joseph Losey. Vitti era bella e sublime, ma un’aliena scesa da un pianeta remoto in un mondo non suo.
Magari sbaglio tutto e invece Vikander sarà la leva del successo mondiale di Tomb Raider. Lo spero per lei, che mi è sempre piaciuto parecchio. Il guaio però è anche, soprattutto, quello che le sta intorno, un film che fa cascare le braccia per la mancanza del minimo scintillio inventivo. Scusate, ma si può adesso, Anno Domini 2018, assemblare goffamente una storia di disarmante povertà al cui confronto certi avventurosi degli anni Trenta su isole esotiche e ostili sembrano testi multistraificati e di massima complessità e polisignificanza? Semplicemente, oggi, non è ammissibile raccontare di gente che dà la caccia alla tomba di una regina nipponica con mappa redatta da precedenti esploratori, e con gente cattiva che alla tomba vuole arrivare per usarne i sovrannaturali poteri al fine di dominare il mondo. La mappa del tesoro! la maledizione del sepolcro profanato! l’isola dannata disseminata di teschi e scheletri!  Le procelle che si scatenano non appena qualcuno tenta di avvicinarsi! Ma allora ridateci Robert Louis Stevenson e non se ne parli più. Che anche I predatori dell’arca perduta, con tutti i suoi anni addosso, sembra rispetto a questo mediocrissimo e piattissimo Tomb Raider di una freschezza inaudita. Lo spettatore che ha gà visto e dato nel campo, resta allibito per come questo film non riesca ad andare oltre il proprio archetipo narrativo riproponendolo nudo e crudo e senza il minimo orpello e arricchimento, come scheletrificato nell’analisi di un qualche studioso dei miti e delle morfologie fiabesche. O come in un rude B-movie anni Trenta-Quaranta. Vien voglia di rivedersi tutto il ciclo di Indiana Jones, e di mandare – se solo si potesse – Steven Spielberg da produttori e sceneggiatori a tenere una lectio magistralis. Si obietterà che s’è dato all’eroina Lara Croft uno spessore psicologico mai visto prima, per via del romanzo familiare che le si è cucito intorno e del tormentato rapporto con il papà avventuriero. Ma anche lì siamo al bigino freudiano consultato e scopiazzato alla voce complesso di Elettra (la versione al femminile dell’Edipo), niente di più.

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