L’ultimo viaggio di Nick Baker-Monteys. Con Jürgen Prochnow, Petra Schmidt-Schaller, Tambet Tuisk, Suzanne von Borsody. Germania 2017. Al cinema da giovedì 29 marzo 2018 distribuito da Satine Film.
Perché il novantaduenne Eduard lascia la Germania e prende un treno per Kiev? C’è una zona di mistero e non detto nel suo passato, qualcosa che ha che fare con la seconda guerra mondiale. Attraverso il rapporto tra Eduard e la giovane nipote Adele, e il loro andare e cercare a Est, L’ultimo viaggio ci porta dentro un doppio nodo. Dentro due cruciali passaggi della Storia. Di quel cinema tedesco che da qualche anno si interroga sul passato (quando il nostro cinema farà altrettanto?). Voto tra il 6 e il 7
C’è un cinema tedesco che con molta diligenza e probità intellettuale si interroga, attraverso la forma della fiction più che del documentario, sul passato della nazione. Passato che ha generato, almeno nel Novecento, mostri e continua a generare incubi, rimorsi e tormenti. Quasi un genere, di cui arriva in Italia ogni tanto qualche titolo esemplare (ma è tutto il cinema tedesco, oggi uno dei migliori d’Europa, assai solido e ricco di idee e autori come ha dimostrato la recente Berlinale, a trovare scarsa e tutt’al più causale cittadinanza dalle nostre parti). Parecchi film made in Germany sono andati negli ultimi anni a porre domande scomode (e cercare risposte) su nazismo e Shoah, e su manifeste e silenziose complicità: titoli come Il labirinto del silenzio e Lo Stato contro Fritz Bauer, mentre il nuovo The Silent Revolution, presentato fuori concorso alla Berlinale 2018, va a disseppellire un episodio di tentata ribellione e resistenza antiregime nella DDR del 1956. Adesso arriva in Italia, grazie a Satine Film, L’ultimo viaggio (Leanders Letze Reise) di Nick Baker-Monteys, dove attraverso il confronto-scontro tra un novantaduenne neovedovo e la nipote bohemien si va a riscoprire e disseppellire un episodio, certo individuale ma di più ampie e collettive implicazioni e risonanze, della remota seconda guerra mondiale. Episodio rimasto oscurato per decenni come un indicibile segreto di famiglia.
C’è qualche apparente affinità tra L’ultimo viaggio e Music Box – Prova d’accusa, un film di Costa-Gavras del 1989 con una Jessica Lange meravigliosa e un inquietante Armin Müller-Stahl. Anche qui c’è una giovane donna che vuole sapere, che vuole la verità, anche qui c’è un vecchio uomo che potrebbe avere parecchio da nascondere. Ma rispetto al film di Costa-Gavras, L’ultimo viaggio si distingue per le più ampie zone di chiariscuri e sfumature, e per l’adozione di un punto di vista squisitamente, inequivocabilmente tedesco. Autocritico e mai autoindulgente, ma tedesco.
Il cinquantenne regista Nick Baker-Monteys non tenta azzardi stilistici, rimane invece sul terreno di un cinema solidamente tradizionale e medio, nel senso migliore di ben fatto e accessibile al pubblico più largo, per dipanare in maniera trasparente e intellegibile la parabola del suo protagonista, il novantaduenne Eduard Leander (Jürgen Prochnow, una gloria del cinema tedesco, qui notevolmente invecchiato per il ruolo). Il quale, dopo il funerale della moglie, si prende un treno diretto a Kiev senza nulla spiegare alla preoccupatissima figlia. Sarà la nipote Adele, ragazza dalla vita precaria e dai modi esistenziali ribellistico-punk, a raggiungerlo alla stazione per dissuaderlo dalla follia e riportarlo a casa. Naturalmente, come i thriller insegnano, sarà lei a restare intrappolata sul treno ormai in movimento, ritrovandosi così in viaggio con il nonno verso l’Ucraina senza sapere il perché e senza averne la minima voglia. Faranno presto la conoscenza di un giovane ucraino assai sveglio di nome Lew, riparato da tempo a Berlino, ma adesso pure lui sulla strada del ritorno verso Kiev. Naturalmente, come esige il modello del film su diverse generazioni a confronto, saranno inzialmente scintille e incomprensioni tra Eduard e la nipote Adele, poi sarà intesa (come dubitarne?). Ma il romanzo familiare è solo un evidente dispositivo narrativo per dispiegare la quest che è il vero asse del film, la ricerca di qualcosa affondato nella memoria e nella coscienza del vecchio, qualcosa che, intuiamo, ha a che fare con la seconda guerra mondiale e l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei tedeschi. Mentre, una volta sbarcati a Kiev, Lew farà a nonno e nipote – con la quale ha stabilito una liaison sentimentale – da guida nei gironi di una città complicata e stremata da tensioni interne e esterne, in cerca pure lui di una sua verità. Già Frost del lituano Sharunas Bartas, dato a Cannes 2017 alla Quinzaine, ci aveva portati nell’Ucraina di oggi e nella guerra interminabile e dimenticata del Donbass con la sua scia di vittime. Lo fa anche, e più chiaramente, L’ultimo viaggio, mostrandoci una Kiev notturna e inquieta, divisa tra sostenitori del neonazionalismo ucraino antirussso e i nostalgici della vecchia Unione Sovietica, tra chi supporta l’esercito impegnato nel Donbass a tenere sotto i controllo i separatisti pro-Putin e chi considera quella guerra un orrore e un errore da chiudere al più presto. Divisione che lacera la stessa famiglia di Lew, e i parenti, gli amici. La storia del novantaduenne e della ragazza venuti da Berlino diventa la chiave con cui affrontare due momenti cruciali, due passaggi, due livelli della Storia. Il primo, e l’attuale, è il conflitto nel Donbass tra Ucraina e separatisti filorussi delle autoproclamantesi repubbliche autonome di Doneck e Lugansk che ha causato diecimila morti, un’enormità. Conflitto pochissimo raccontato e mediatizzato eppure letale, verso il quale l’Europa continua a mostrare la massima indifferenza. Ma il viaggio di Eduard, di Adele e Lew continuerà oltre il Donbass, in territori adesso russi. E allora riemergerà il passato, il secondo livello della Storia affrontato da L’ultimo viaggio, il secondo girone. Non posso e non voglio spoilerare, chiaro, ma dico che si riporta alla superficie un quadro di eventi in gran parte sepolti e sconosciuti ai più. Alzi la mano chi ha sentito parlare dell’etnia cosacca che, peserguitata da Stalin, all’avanzata tedesca passò dalla parte degli invasori sperando di liberarsi attraverso di loro dall’oppressione sovietica. Cosacchi divisi tra filotedeschi e filo-rossosovietici. Furono orrori da una parte e dall’altra, massacri seriali, montagne di cadaveri, anche di vecchi, donne, bambini. La lezione di L’ultimo viaggio è che non è sempre facile separare i ruoli di carnefice e vittima, e che ci sono passaggi della Storia in cui le parti possono capovolgersi. Ma se questo è lo sfondo, quale fu il ruolo di Eduard? Il film, costruito come un classico racconto di indagine e di ricerca della verità celata, lo svela solo nelle scene ultime, anche se lascia prudentemente un margine di indistinto. Suggerendoci come il segreto del vecchio Eduard sia anche un segreto sia della Germania e dei suoi nemici di allora, l’Unione Sovierica. Si esce con la sensazione di un necessario viaggio nella memoria cancellata e ritrovata. Certo, se cercate il capolavoro e un cinema che esplora se stesso e si inventa nuove visioni, non è questo il caso, non è questo il film. Ma L’ultimo viaggio vale ampiamente la spesa del biglietto per quello che racconta. Facendoci sperare che anche in Italia possa nascere un cinema impegnato senza indulgenze nell’indagine del passato.
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