Recensione: METTI LA NONNA IN FREEZER, un film di Fontana & Stasi. Black comedy all’italiana: una discreta sorpresa

Metti la nonna in freezer, un film di Giancarlo Fontana e Giuseppe C. Stasi. Con Fabio De Luigi, Miriam Leone, Lucia Ocone, Barbara Bouchet, Marina Rocco, Eros Pagni.
Il titolo è ignobile. Ma il film che ci sta sotto non è niente male, anzi una lieta sorpresa nel panorama del nostro cinema popolare. Una black comedy che guarda ai Coen, con una nonna defunta ma messa in freezer dalla nipote per poterne incassare ancora la pensione. Detta così sembra una storia di massima grevità, e invece registi e sceneggiatore azzeccano molte cose, infarcendo la storia di buone idee e figure e figurette ottimamente disegnate. E poi c’è Miriam Leone, la più bella. Voto tra il 6 e il 7
Al titolo più brutto e corrivo di questi primi mesi del 2018 – Metti la nonna in freezer no,  vi prego – corrisponde invece un film che è una discreta sorpresa. Una commedia che punta al largo pubblico ma con idee e pensieri, e voglia di osare qualcosa. Di quelle su cui, quando leggi pigramente la sinossi, punteresti meno di zero e che invece si rivelano vispe, fuori media (del nostro cinema), magari imperfette e sghembe ma con dentro la voglia di andare oltre il carino e il farsesco greve che sono le cifre, per quanto opposte, di tanto nostro cinema pop(olare). Poi vai a vedere i credits e scopri che alla sceneggiatura c’è Fabio Bonifacci, uno bravo (in curriculum Amore, bugie e calcetto, Amiche da morire e molto altro) e allora capisci come sia venuto fuori un buon prodotto (che oltretutto sta andando bene al box office, credo oltre ogni previsione: uscito giovedì 15 marzo, a lunedì 19 è arrivato a 1.414.451 euro). Alla regia i fino a questo film a me sconosciuti Giancarlo Fontana e Giuseppe C. Stasi, che il pressbook ci informa essere entrambi di Matera e con variegata storia alle spalle di cose audiovisive, anche per Sky. E che dimostrano di saper usare la macchina da presa come si deve, in modi non notarili e invece giovanil-contemporanei (inquadrature, per dire, in cui si parte da un dettaglio, tipo tazzina di caffé ripresa dall’alto a tutto schermo come fosse un lago scuro e minaccioso, per poi allargare), camera veloce senza però esagitazioni e convulsioni, quel senso dell’immagine piena, densa, ricca, eccitata che oggi le nuove generazioni sembrano possedere come corredo genetico. E, finalmente, una regia che sa definire il clima del racconto anche attraverso una cura dalle nostre parti rara (almeno fuori dal cinema autoriale) per il décor, la scenografia, e penso a quell’interno della casa della protagonista, anzi della nonna della protagonista: tutto un tripudio di immagini di popolare devozione, in testa sacri cuori, e pessime cose di pessimo gusto e però cariche di passato e dei riflessi di una vita vera, per quanto anonima. Basterebbe l’attenzione con cui questo microcosmo è evocato e ricostruito – e dentro ci senti e ci intravedi lontane memorie di case di vecchie zie con gli oggetti feticcio di un tempo e di un’Italia minima che non ci sono più – per capire come il duo registico abbia uno stile, una visione, e non si adagi nella solita medietà pigra (quante commedie italiane abbiamo visto con interni improbabili dove nessuno potrebbe mai abitare, neanche nella finzione, messi su con un qualche pezzo raccattato in dozzinali showroom?). In quel bric à brac nella casa di nonna c’è pure qualche eco – e sottolineo qualche – di un cinema di soffocate dimensioni domestiche e insieme di derive visionarie, Jeunet (che non amo, ma di cui riconosco la non medietà), Guillermo Del Toro, Terry Gilliam. Quanto alla storia, una commedia nera e allegra con pochi precedenti dalle nostre parti, se mai per trovare riferimenti bisogna cercare dalle parti dei fratelli Coen, o di certi classici inglesi tipo Sangue blu – ma immagino che i due registi abbiano tenuto d’occhio più i primi.
Claudia, restauratrice, è sull’orlo del crollo, nervoso e finanziario: ha decine di migliaia di euro da incassara da stato e istituzioni varie per il lavoro svolto, ma niente arriva sul conte corrente. Zero. La povera – simbolo fin troppo evidente di tutti i precariati e tutte le partite Iva del nostro paese in eterna attesa di incasso – riesce a sopravvivere, e a pagare le sue due valenti collaboratrici-assistenti, solo grazie alla pingue pensione di nonna Birgit, una bavarese non si capisce come mai approdata decadi fa in Italia. Ma è un’astuzia di sceneggiatura per giustificare la scelta di Barbara Boucher con il suo accento mai italianizzato. E chapeau a Bouchet, che si è dimostrata assai autoironica e coraggiosa nell’accettare una parte di donna dimessa, che oltretutto lascia presto questa valle di lacrime per diventare un cadavere presentissimo e ingombrante. Già, defunta la nonna niente più pensione, e quindi addio all’aziendina di restauro. Sicché la brava nipote Claudia, riluttante ma spinta ad agire dalle due colleghe, si decide a nascondere il corpo di nonna nel freezer per incassarne ancora l’emolumento Inps (ogni riferimento a questa Itaia che non è un paese per giovani immagino non sia casuale, anche se il rischio è poi di cavalcare il più becero populismo giovanilista del diamo addosso ai babyboomers “che con le loro ricche pensioni vampirizzano le nuove generazioni”). E potete immaginare la commedia degli equivoci che si innescherà (anche per via di un anziano spasimante venuto da Albenga in camper deciso, ora che è vedovo, a impalmare Birgit: un formidabile Eros Pagni). Il film con cadavere occultato e spacciato per mai morto è un sottogenere preciso della commedia nera, da La congiura degli innocenti di Hitchcock a Weekend con il morto, e dunque niente di nuovo. Solo che Bonifacci è assai bravo nell’escogitare una trama ricca, con continui rovesciamenti di fronte, nel mettere in campo figure e figurette collaterali ben disegnate e ben inserite nella trama narrativa di insieme: la squadra del finanziere, per dire. Ci sono più idee qui dentro di quante non ce ne siano in cinque medie commedie italiane. Succede che la traiettoria di un integerrimo finanziere di nome Simone si incroci con quella di Claudia, e che lui se ne innamori (facile: lei è Miriam Leone, la più bella donna d’Italia, che qui si butta nella difficile impresa della commedia dark senza risparmiarsi, davvero con generosità). Mentre lei pensa che tante attenzioni da parte di lui siano dovute ai sospetti sulla sparizione di nonna. Un qui pro quo dei più classici che tiene però insieme il film e lega tra loro un’infinità di episodi massimi e minimi. Non ci sono facili scorciatoie narrative, né sciatterie. Si pensi solo al finale molto ben orchestrato, dove tutti i personaggi trovano il loro posto e dove gli eventi si incastrano perfettamente generando sorprese e sberleffi a ripetizione. Spesso i film cadono in finali approssimativi, Metti la nonna in freezer è tra i pochi casi contrari. Poi non è che tutto funzioni, ovvio. Quella gnagnera da media commedia italiana piccina ogni tanto salta fuori, non tutte le trovate sono così smaglianti. Ma avercene. Di Miriam Leone si è detto, resta da dire dell’altro protagonista, Fabio De Luigi, il finanziere inflessibile sul lavoro e imbranato nelle faccende private. Anch’io, allineandomi a quanto ha già scritto qualcuno, ho un problema con De Luigi, diciamo che non è una presenza che mi inchiodi alla poltrona, ecco. Devo però riconoscere che qui, in un ruolo che in altre epoche sarebbe andato a un Pozzetto, ha i tempi e i modi giusti. Anche la faccia. Poi, anche sottoscrivendo il famoso patto di sospensione dell’incredulità, si fa fatica, ma proprio tanta, a convincersi che Miriam Leone perda la testa per lui. Produce Indigo, la storica maison dei film di Sorrentino.

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