Film stasera in tv: TUTTO TUTTO NIENTE NIENTE con Antonio Albanese (dom. 25 marzo 2018, tv in chiaro)

Tutto tutto niente niente, Rai Movie, ore 21,10. Domenica 25 marzo 2018.
Recensione scritta all’uscita del film.


Tutto tutto niente niente, regia di Giulio Manfredonia. Con Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Paolo Villaggio, Lorenza Indovina, Lunetta Savino.
Come film di satira politica arriva troppo tardi: l’Italia che prende a bersaglio, l’Italia del berlusconismo terminale è ormai remota. Questo quasi-sequel di Qualunquemente – torna Cetto, accompagnato da altri due ceffi – ha poi il difetto della lentezza esasperante. Dove ci azzecca è nella parte visuale, davvero notevole, nel come sa rappresentare la sua galleria di mostri: qualcosa tra il barocco-grottesco mediterraneo, l’espressionismo tedesco, il Fellini del Satyricon. Voto 5 e mezzo

Se lo si prende come film politico, come cinema d’impegno e perfino civile, di protesta e denuncia contro l’abominio corrotto dei poteri, allora questo Tutto tutto niente niente è datato, tardivo, fuori tempo massimo. Così sfuocato rispetto alla realtà odierna da risultare fastidioso. Il bersaglio grosso del film di Albanese è evidente, lampantissimo, è la fase terminale e senile del berlusconismo prima dell’avvento di Monti, è la politica dell’acquisizione cinica di parlamentari di sostegno, è l’escortismo elevato, da perdonabile vizio privato, a proterva pratica pubblica. Solo che nel frattempo abbiamo avuto il nostro anno di loden-therapy, di professore-preside bocconiano che con la sua sola immagine austera e vetero-borghese ha spazzato via quel mondo rendendolo obsoleto. Vero, il cavaliere ha appena fatto lo sgambetto al professore tentando di rientrare in circolo, ma indietro non si torna, oggi l’Italia è stretta nell’angoscia della crisi e dell’impoverimento, le garrule serate di Arcore e gli sciupii vistosi dei satrapi sembrano ormai appartenere a una lontana galassia. Un cambio di clima e sensibilità collettiva che rende di colpo Tutto tutto niente niente già archeologia di un passato prossimo incredibilmente remoto. Il che, per un’opera di ambizioni satireggiante, non è il massimo. Quasi un sequel di Qualunquemente, questo film di Albanese e Giulio Manfredonia ne ripropone l’ignobile Cetto, affiancandogli però altri due mostri e mascheroni di questa Italia o di quell’Italia sprofondata un anno fa, il secessionista nordestico Olfo e il frikkettone-guru global-pugliese Frengo, il che consente ad Albanese di triplicarsi e modulare su più registri la sua passione a calarsi in caratteri loschi e laidi. Ognuno dei tre incarna un pezzo dell’Italia più schifosa, la collusione politico-mafiosa, il razzismo delle piccole e piccolissime patrie, l’escapismo scemo del drogarsi di massa e dell’ibizismo. Per motivi diversi finiscono tutti in galera. Olfo per aver tentato di uccidere un immigrato, Cetto per la conduzione criminale del territorio di cui è ras, Frengo perché la mamma pazza e tirannica lo vuole beato di santa madre chiesa e, visto che un figlio sofferente e martire aiuterebbe la causa, lo fa arrestare. Finché un sottosegretario a Roma, tessitore delle più oscure trame e gran ciambellano di ogni possibile patto scellerato, li tira fuori, li convoca, offre loro libertà e un posto in parlamento a patto che ovviamente votino qualunque cosa il Partito e il Presidente del Consiglio chiedano loro. Che dire? La satira politica è alquanto scontata e prevedibile e, quel che è peggio, virtuosamente politically correct, ma in fondo è solo un pretesto perché Albanese si scateni nella sua infame galleria di mostri, uomini corrotti dentro e nel profondo, la cui viziosità si esterna fisiognomicamente in corpi repellenti, tic devastanti, deformazioni grottesche. Il limite di questo film, che è anche quello di certi film pur decorosi di Aldo, Giovanni e Giacomo, è il ritmo blandissimo. A dettare il tempo è purtroppo la comicità soprattutto verbale di Albanese, dilatata, eccessivamente distesa, mai crepitante, costruita sulla lentezza e la cavillosità. Ma un’occhiata, che so, a certe commedie classiche di Howard Hawks o anche Billy Wilder con quei bei dialoghi a mitraglia non sarebbe il caso di darla? Le tre storie, altro problema, non sono allo stesso livelo. La meglio e più risolta è quella di Cetto, la più scombinata e improbabile è quella di Frengo: tutta la parte religioso-vaticana non sta né in cielo né in terra. Dove il film invece riesce molto bene è nella sua capacità di restituirci visivamente la mostrificazione di certa Italia. Albanese ha tirato in ballo Grosz e Otto Dix, a me è venuto in mente di fronte a certe sequenze allarmanti, e a certe facce imputridite e patibolari, a certi corpi sfatti e già corrosi e moribondi, il Fellini del Satyricon, lugubre e fantasmatico con le sue incursioni nelle viscere dell’impero. L’idea di ambientare il parlamento e i luoghi del potere nell’Eur metafisico e glacialmente neoclassico, e di deformare i politici fino a farli somigliare agli invitati lerci di un baccanale o di un immondo Trimalcione-party, è davvero buona. Impossibile dimenticare quelle facce bistrate, quel presidente del consiglio (un Paolo Villaggio muto e usato come icona e feticcio) con la corona di lauro come un novello Nerone o Caligola. Sono queste intuizioni visive a rendere interessante Tutto tutto niente niente, molto più della sua satira politica, ormai obsoleta come il bersaglio che vuole colpire. Ed è davvero memorabile il Sottosegretario di Fabrizio Bentivoglio, in rilucente abito damascato quasi settecentesco, l’aria da cortigiano navigato e velenoso, e quegli anelli che tintinnano minacciosi come i sonagli di un serpente.
PS: si rivedono con piacere certe location all’Eur che già Bertolucci aveva usato nel suo Conformista. Sarà una citazione voluta?

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