Al cinema: PETIT PAYSAN, un film di Hubert Charuel (recensione). Pierre e i suoi animali contro tutti

Petit Paysan, un eroe singolare. Un film di Hubert Charuel con Swann Arlaud, Sara Giraudeau, Isabelle Candelier, Bouli Lanners, Marc Barbé, India Hair, Franc Bruneau. Distribuito da Nomad, al cinema da giovedì 22 marzo 2018.
Partita dalla Semaine de la critique di Cannes, un’opera prima che è diventata in Francia il caso dell’anno: molti biglietti venduti e tre César vinti. Petit Paysan va a esplorare il mondo poco raccontato delle aziende agricole familiari attraverso un giovane allevatore che si trova a combattere per salvare le sue mucche da un’epidemia. E la sua fattoria dal fallimento. Film parecchio interessante per quanto dice e per come lo fa: mescolando il cinema del reale a quello di genere, con anche qualche tocco surreale. Da non perdere. Voto 7 e mezzo
Un film che in Francia è stato un caso neanche così piccolo (550mila biglietti venduti, e ben tre César vinti un paio di settimane fa: per la migliore opera prima, più quelli a Swann Arlaud come migliore attore protagonista e a Sara Giraudeau come migliore attrice non protagonista). Che invece da noi rischia di naufragare tra incagli distributivi e strozzature delle sale disponibili, e sarebbe un peccato. Petit Paysan, ma più che di un piccolo contadino si tratta di un piccolo allevatore, si discosta parecchio dal cinema solito per andare a raccontarci il mondo agricolo, oggi poco o niente rappresentato, della Francia profondissima, delle fattorie, degli allevamenti di bovini, e attraverso quel mondo dirci parecchio del mondo tutto, il nostro, in cui stiamo vivendo, e del tempo instabile che stiamo attraversando. A cominciare dalla rabbia che sale dall’Europa, e in Italia più che in altri paesi, contro le élite, le burocrazie e l’eurocrazia, e del senso di solitudine e di abbandono di chi da quelle élite è sideralmente distante. Non è però un film politico, Petit Paysan, tutt’altro. Preferisce stare addosso e stretto, senza lanciare proclami, al suo protagonista Pierre, anni 35, allevatore di mucche da latte nella Charente, sud-ovest francese, dipanando a partire da lui un film piuttosto innovativo nella sua forma cinema, dove si mescolano iprrmodernamente il realismo e il naturalismo di tante tranches de vie di narrazioni passate ai modi del cinema del reale e a quelli dei generi, in questo caso del thriller. Rimandi gialli per la verità più dichiarati dal regista nel suo incontro con qualche giornalista e il pubblico dopo l’anteprima all’Anteo di Milano, che così chiaramente visibili. Sì, vien costruito un racconto di tensione e sospensione, con minacce e pericoli che incombono sul destino del giovane allevatore e le sue adorate mucche mantenendo lo spettatore appeso all’esito apertissimo della vicenda, ma a prevalere è in my opinion il lato umano e umanistico, e il conflitto interiore del suo protagonista. Aggiungiamoci, in questo film contaminato (anche nel senso che se ne sta lontanissimo dal fighettismo di massa e si sporca letteralmente con il letame con cui è a contatto il suo Pierre) per modi e stili, pure un qualche inserto surrealista: quelle mucche in casa nel bellissimo sogno iniziale, quel vitello ospitato e alloggiato sul divano come una persona di famiglia. Sempre nel suddetto incontro con il pubblico Hubert Charuel ha detto pareccio altro di interessante. Che lui si colloca in certo cinema francese dei trentenni che racconta di cose concrete e materiali scansando però il piatto realismo per fare anche cinema-spettacolo, citando, come affini al proprio, film quali Les Combattents e Jusqu’à la garde (il secondo, premiato ben due volte aVenezia 2017, certo più spintamente thriller di Petit Paysan). Ha aggiunto di averci messo parecchio di proprie esperienze biografiche, venendo lui stesso da una fattoria dove per anni ha dato il suo  concreto e manuale contributo, ed è la fattoria in cui ha girato il film. Solo che poi lui ha lasciato terra e animali per andarsene a Parigi a frequentare la Fémis, la più famosa scuola di cinema di Francia, il corrispettivo del nostro Centro sperimentale. Data la difficoltà di entrare alla Fémis – la selezione è durissima, i test infiniti, i concorrenti moltissimi e i posti solo qualche decina, come si è visto tre anni fa nel bellissimo documentario di Claire Simon Le Concours – bisogna fargli le congratulazioni. Ora eccolo al suo primo lungometraggio, lanciato alla Semaine de la critique a Cannes 2017 e da lì involatosi verso il successo dei César, lungo in cui ha cercato, per sua stessa ammissione, di elaborare in forma di cinema il senso di colpa per aver disertato la campagna, per aver mollato la fattoria di famiglia condannandola all’estinzione per mancanza di eredi continuatori. ‘Il mio film – ha detto più o meno Charuel: non ho preso appunti né tantomeno ho registrato, quindi vado a memoria – parla della morte di un’azienda agricola, in questo riflettendo quello che potrebbe succedere a quella della nostra famiglia dopo la mia conversione al cinema’ (e per analogia mi viene in mente il figlio dell’operaio salumiere Stefano Accorsi nell’ultimo film di Ligabue che va a studiare al Dams).
Petit Paysan, breve sinossi: Pierre, unico responsabile dell’allevamento di mucche lattiere di casa dopo il pensionamento dei genitori e la scelta della sorella di diventare veterinaria, piomba in pieno dramma, insieme esistenziale e economico, quando scoppia un’epidemia tipo mucca pazza – ma non è mucca pazza, trattasi di una sindrome inventata ad hoc da Charuel per il film, a sottolinearne l’aspetto anche fictionale e fantastico – che colpisce i bovini. Quando scopre che uno dei suoi animali ne è colpito lo uccide e ne fa sparire il cadavere per evitare che tutti gli altri vengano abbattuti come le normative impongono per bloccare il contagio. Sarebbe la fine per lui, visto che, com’è già accaduto ad altri piccoli allevatori (uno in particolare, belga, che con il suo canale Youtube tiene prontamente informato i colleghi di quanto gli è capitato), i promessi indennizzi poi tardano ad arrivare, anzi non arrivano proprio. La sua sarà una lotta per salvarsi e per salvare le sue mucche, e quando altri esemplari saranno colpiti Pierre continuerà a occultare, depistare, ingannare. Fino a una seconda parte e a un finale che naturalmente non si possono rivelare. Intorno al main character figure e figurette. La sorella veterinario che intuisce quanto Pierre sta combinando, i genitori ingombranti, specie la madre. Gli amici, solidali ma anche pronti ad approfittare della sua disgrazia offrendosi di acquistare, gli avvoltoi, a prezzi di saldo la fattoria. C’è parecchio di nuovo nel cosa Hubert Charuel racconta e nel come lo fa. Colpisce l’assoluta dedizione del suo trentacinquenne Pierre a un lavoro oggi così socialmente poco considerato (“so fare solo questo, non ho mai fatto altro”), lo speciale legame che lo salda indistruttibilmente ai suoi animali, fino a sfiorare una sorta di protettiva paternità per il vitellino nato in mezzo a tante disgrazie e pericoli (e però, ci si chiede, se il rapporto con i propri animali si spinge a tali livello di affezione, anzi di affetto, cosa succede quando tocca macellarli? questo il film purtroppo non lo affronta preferendo adagiarsi nel suo côté più facilmente animalista).
Questo è un film materico e carnale. La possanza e anche la bellezza delle mucche domina la scena, occupa i giorni e anche le notti, tornando nei sogni e incubi di Pierre, i loro corpi si impossessano dello spazio schermico soggiogandoci. E in tempi di non-mestieri fighetti e fuffeschi come gli attuali – dove trionfa l’immaterialità digitale, dove le nuove figure di riferimento per legioni di giovani e giovanesse sono gli influencer – che bello vedere un trentenne che si sporca letteralmente la mani, che spala il letame, che accudisce e pulisce le sue mucche e, se occorre, le aiuta a partorire tra sangue e ogni genere di umori. Non per contrapporre la sana campagna ai vizi della smidollata metropoli  – ché il rischio è di cadere nel fanatismo della banda dei quattro che mandava gli intellettuali a morire di fatica nelle campagne -, ma insomma verrebbe voglia di vedere qualche inflencer e fashion blogger spalare il letame, e non in un reality tipo La fattoria et similia, e senza Instagram a immortalare il sacrificio a uso dei follower. L’altro lato assai interessante di Petit Paysan sta nel come intercetta, credo del tutto involontariamente e senza la minima pretesa di fotografare l’attualità, la rabbia di tanta Francia profonda – ma si potrebbe dire di tanta Europa profonda – contro le élite. La rabbia di Pierre contro chi gli impone di abbattere i suoi animali in base a regole astratte e imperscrutabili è simile a quella che tanti, oggi, rivolgono contro poteri percepiti come lontani e che ha alimentato la carica dei nuovi populismi. Dal film traspaiono chiari lo smarrimento e il senso di impotenza verso regole rigidissime varate dall’Europa in tema di politica agricola e sicurezza alimentare, sovraccaricando chi il lavoro agricolo e di allevamento ancora lo fa di un pulviscolo soffocante di lacci e lacciuoli burocratici. Pierre come inconsapevole, e sottolineo inconsapevole, incarnazione della Francia contadina che per protesta ha votato Marine Le Pen? All’incontro di Milano con stampa e pubblico i regista ha risposto con decisione: “Il mio protagonista non vota Le Pen, ve lo assicuro”, e però la sensazione di una certa consonanza tra Petit Paysan e lo Zeitgeist populista resta, nonostante e al di là delle stesse intenzioni dell’autore. Swann Arlaud quale Pierre sorprende per come riesce a essere convincente quale allevatore, lui che avevamo visto aristocratico vizioso e debosciato e nullafacente nel bellissimo Une vie di Stéphane Brizé. Qui invece eccolo convertito alla dura legge della fatica, in una parte di quelle che si imprimono nella testa dello spettatore e che lo ha portato fino al César come migliore attore protagonista. Meritato, e però io avrei preferito fosse andato al sublime Jean-Pierre Bacri di C’est la vie.

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