Film stasera in tv: VITA DI PI di Ang Lee (mart. 3 aprile 2018, tv in chiaro)

Vita di Pi di Ang Lee, Rai 4, ore 21,05. Martedì 3 aprile 2018.
Recensione scritta all’uscita del film.
LVita di Pi, regia di Ang Lee. Con Suraj Sharma, Rafe Spall, Irrfan Khan, Gérard Depardieu, Tabu, Adil Hussain, Ayush Tandon, Andrea Di Stefano.LUn film che si presenta come un avventuroso, con un ragazzo indiano scampato a un naufragio e prigioniero su una scialuppa in mare con una tigre: sarà lotta dura per la sopravvivenza. Ma scopriremo che le cose non sono così semplici, in un finale che mette in discussione il film e lo distrugge. Il tutto condito con sincretismi new age che fanno pencolare Vita di Pi verso il kitsch culturale. Voto 4LOra, che i signori giurati dei Golden Globes (che sono poi giornalisti della stampa estera di stanza in America) abbiano incluso tra le nomination a migliore film dell’anno questo Vita di Pi ed escluso The Master di Paul Thomas Anderson, è semplicemente uno scandalo, se vogliamo andarci più leggeri diciamo un abbaglio, ecco. Scorrendo sul web le infinite top ten dei film 2012 redatte da critici Usa di vario tipo e a vario titolo, mi son reso conto di come Vita di Pi da quelle parti sia proprio strapiaciuto, finendo molto spesso ai primi posti, se non al primo. Sarà, ma per me Vita di Pi si candida seriamente a bufala dell’anno. Una di quelle cosacce arty che mescolano discorsi finto-alti, stavolta sull’esistenza di Dio e la coesistenza di diverse religioni, allo spettacolone mainstream, usando quelli come alibi e legittimazione di questo. Fastidioso. Vero, Ang Lee non è un regista qualunque, è uno di mestiere sopraffino che sa raccontare come pochi, dotato di uno stile fluido e assai friendly e empatico verso lo spettatore, non è mai sciatto né tantomeno volgare, e sa bene come tenersi lontano dagli abissi del corrivo e del cattivo gusto. Oltretutto qui usa finalmente il 3D in modo funzionale e umano, mai smargiasso, sottraendogli quella puzza di baracconaggine che si porta dietro da sempre. Ang Lee riesce pure a mettere in scena una relazione tra un umano e un animale (tigre del Bengala, per la precisione) senza cadere in arcaici cliché disneyani di antropomorfizzazione della bestia e anche evitando gli animalismi-ecologismi più cretini secondo i quali la natura e il naturale sono di per sè superiori e buoni. Eppure Vita di Pi non quaglia, non decolla, non funziona. Tratto dal bestseller del canadese Yann Martel (che non ho mai letto e che il film non mi ha invogliato certo a leggere), è un intruglio piuttosto indigesto di visioni cosmico-paniche (ma senza il genio del Malick di The Tree of Life), sincretismi religiosi new age, ricorso a generi come il fantastico, il fiabesco, l’avventuroso, il racconto post-disneyano per adulti ma soprattutto per piccini. Il tutto frullato con un relativismo spiccio e spicciolo alla Pirandello-Rashomon secondo cui signora mia la realtà non si sa bene da che parte stia di casa e ‘sono come tu mi vuoi’. La prima parte è al limite dell’insostenibile, da tanto che gronda retorica, vituosi sentimenti ed esotismo alla buona. Siamo a Pondicherry, ex colonia francese in terra d’India: Pi (abbreviativo di Piscine, sì, come piscina, in omaggio a una piscina parigina molto amata in casa, soprattutto dallo zio gran nuotatore) nasce e cresce in una famiglia indiana proprietaria di un hotel con annesso zoo. Curioso com’è, frequenta, lui induista, sia chiese che moschee, trovando ovviamente che in tutte le religioni c’è del buono, e dunque ecco spezzata subito una lancia politically correct a favore della convivenza multietnica e multiculturale, alla faccia di quei perfidi e ottusi che si ostinano a parlare di scontri di civiltà. (Naturalmente Pi si ripromette anche di conoscere un po’ meglio l’ebraismo, che così il film si mette al riparo, come ha rilevato un critico americano, da un’eventuale accusa di antisemitismo.)
Quando il padre decide di chiudere per problemi economici l’hotel e di trasferirsi con famiglia e pure con le bestie dello zoo in Canada (“lì hanno mercato, li potremo vendere e ricavarci dei soldi per ricominciare una vita”), si imbarcano tutti, Pi compreso, sul cargo giapponese che dovrà portarli nel nuovo mondo. Quello che segue è raccontato in flashback (o sono visioni? sono finzioni? sono fantasie?) da Pi adulto, nell’intervista che rilascia in Canada, dove risiede, allo scrittore affascinato dalla sua storia e deciso a trasformarla in un libro. Fosse solo il racconto di un’avventura straordinaria: macchè, lo scrittore e l’intervistato si ostinano a cercarvi la prova dell’esistenza di Dio o, almeno, una sua epifania, e questo spinge Vita di Pi sui terreni scivolosissimi di un involontario kitsch culturale da cui sarebbe stato sensato tenersi alla larga. Quel che Pi ha vissuto – naufragio e successiva odissea per quasi un anno nell’oceano Pacifico – è solo eccezionale o porta anche il segno del sovrannaturale? Il cargo su cui viaggia con i suoi e con gli animali si inabissa durante una tempesta, l’unico a sopravvivere, finito chissà come in una scialuppa di salvataggio, è lui. Solo che si ritrova a bordo anche qualche animale: una zebra, una iena cattivissima e vorace, una scimmia buona, e infine Richard Parker, come stravagantemente si chiama la tigre del Bengale che dello zoo era l’attrazione e che, nuotando (“le tigri sono grandi nuotatori”), riesce a raggiungere la scialuppa. Gli altri animali spariscono ben presto, e non dico come. Resta la tigre, e resta Pi. Sarà un confronto-scontro, un duello, anche un corpo a corpo. Il film è la cronaca-storia di come hanno convissuto sulla barca, di come Pi sia riuscito a non farsi divorare dalla belva, e della reciproca sopportazione, o forse rispetto, che le due creature hanno poi raggiunto e stabilito. È la parte migliore di Vita di Pi, pura avventura nel claustrofobico spazio di una scialuppa, anche se intorno c’è la dimensione senza fine del mare e del cielo. Ang Lee (e Yann Martel, l’autore del libro) azzeccano un incontro uomo-animale senza smancerie, una lotta per la sopravvivenza che si risolve in un armistizio fondato sul reciproco interesse. Ma quando si va sul meraviglioso (la grande orca, i pesci volanti) o sulla presunta rivelazione del divino, sulla presenza del numinoso (squarci di luce tra le nuvole e lampi in puro stile I dieci comandamenti di Cecil B. De Mille) il film non ce la fa più a stare a galla e si inabissa. Ancora peggio va con l’approdo nell’isola misteriosa letteralmente ricoperta di piccoli roditori: qui sentiamo puzza di inverosimile, di palla colossale, e difatti quello che di lì a poco ci verrà detto da Pi confermerà il sospetto. Ecco, il punto di rottura, di esplosione, dell’intera narrazione arriva alla fine, durante il confronto di Pi in ospedale con gli assicuratori giapponesi che gli chiedono “una versione più credibile dei fatti”. E Pi un’altra versione di come è sopravvissuto al naufragio e poi a centinaia di giorni in mare, alla deriva, la tira fuori: è questa finalmente la verità? O dobbiamo prendere per buono quanto fino a quel momento ci ha riferito, insomma la iena, la tigre e tutto il resto? Il dubbio che ci abbiano rifilato, Pi e con lui Ang Lee e Yann Martel, una fola, una bufala, ci assale fortissimamente. No, scusate, non si fa, non potete alla fine instillarci il dubbio (ed è più che un dubbio) che fosse tutto inventato, è scorretto, è ammettere di averci preso in giro per tutto il film. D’accordo, si tratta di cinema, di romanzo, ma anche in un’opera di finzione e invenzione ci vuole una moralità, una coerenza, lo spettatore (e il lettore) non vanno mai ingannati, come ricordava una che di letteratura popolare si intendeva, Agatha Christie. Le partite narrative non vanno giocate a carte truccate. Quel che Ang Lee avrebbe dovuto onestamente fare sarebbe stato di dividere il film in due parti, la prima con la versione ‘alla deriva con la tigre’, la seconda con la messinscena di quanto raccontato da Pi ai giapponesi (che ovviamente non sveliamo). Due facce possibili, due versioni con pari dignità, o meglio, due storie in cui la seconda spiegherebbe la prima. Che poi, a ben guardare, è esattamente quanto fece David Lynch in quell’opera capitale che è Mulholland Drive, dove la prima parte incasinatissima, surreale e visionaria diventa invece trasparente e perfino elementare alla luce di quanto ci viene svelato nella seconda. Una struttura usata anche dal regista-rivelazione di questo 2012, il portoghese Migul Gomes, esploso alla Berlinale con Tabu e consacrato qualche settimana fa al festival di Torino con una retrospettiva. Proprio a Torino ho visto il suo Il nostro adorato mese di agosto, girato prima di Tabu, un film che si presenta apparentemente doppio e incongruo: prima documentario quasi etnografico, poi melodramma. Ma a un certo punto capiremo che le due trame sono in realtà connesse, e anzi sono la stessa cosa. Questo avrebbe dovuto fare coraggiosamente Ang Lee. Così ci rifila solo una bufala.

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