Last Men in Aleppo, un documentario di Feras Fayyad, co-regista Steen Johannesen. Con Khaled Umar Harah. Distribuito da Wanted Cinema.
Vincitore al Sundance Festival 2017, nominato all’Oscar per il migliore documentario (andato poi a Icarus). Film impressionante e necessario che ci mostra la vita e la morte ad Aleppo Est assediata dall’esercito di Bashar al-Assad, bombardata dagli aerei russi. Con in primo piano Khaled e Mahmoud, volontari che soccorrono le vittime delle bombe. Non perdetevelo. Adesso in programmazione a Milano al Beltrade. Voto 7 e mezzo
Un documentario indispensabile – correte a vederlo – dalla Siria in guerra. Sulla Siria in guerra. Last Men in Aleppo, Ultimi uomini ad Aleppo, solo il più recente dei film che ci hanno raccontato il conflitto insieme più sanguinoso e inquietante della nostra storia di questi anni. E indecifrabile, per come sia faticoso per l’osservatore esterno districarsi tra torti e ragioni delle parti in gioco, e distinguere la mappa geopolitica dei (molti) gruppi ora opposti ora convergenti. Quando apparve a Cannes 2014 (fuori concorso) il primo dei documentari sulla guerra di Damasco, Homs, Aleppo, il formidabile (anche per invenzione cinematografica) e a tutt’oggi insuperato Sylvered Water, Syria Self Portrait, tutto era più chiaro, da un lato dello scacchiere dei buoni e dei cattivi ci stava Bashar al-Assad il tiranno, dall’altro i ribelli per i quali parteggiare senza la minima esitazione. E per loro difatti si parteggiava, anche se già in quel film profetico si intuivano le infiltrazioni jihadiste nel campo dei migliori, i primi segni di fanatismo e intolleranza tra i combattenti anti-regime (e qualcuno, avvertendo il rischio, lanciava l’allarme). Poi tutto si è complicato, anche se sulla spietatezza e sulle colpe e responsabilità del macellaio Bashar al-Assad e dei suoi alleati – l’Iran attraverso lo sciita Hezbollah suo braccio armato sul campo, la Russia putiniana – continuano a non esserci dubbi. Ma dall’altra parte chi c’è? Se all’inizio l’egemonia della lotta pareva salda nelle mani dell’esercito libero ribellatosi ad Assad, adesso mi pare che il quadro si sia complessificato alquanto (e solo un esperto di quel conflitto potrebbe tracciare una mappa esplicativa: per esempio l’eccellente Daniele Ranieri del Foglio). Di sicuro, rispetto al 2012 quando tutto cominciò i jihadisti in varie forme – dai pro-Al Qaida ai tentacoli dell’Isis – si sono parecchio rafforzati tra i ranghi dell’opposizione.
Lunga introduzione, anche per chiarirmi le idee e cercare una qualche risposta ai dubbi che mi sono venuti in corso di visione di Last Men in Aleppo. Film necessario, e agghiacciante e straziante, che ci procura un salutare shock e smuove la nostra indifferenza di fronte al carnaio siriano (sono centinaia di migliaia le vittime, e poi intere aree rase al suolo, milioni di profughi, in gran parte intrappolati in Turchia mentre sono una minoranza coloro che hanno trovato asilo in Europa, massimamente in Germania). Film che ci mostra, tra autunno del 2015 e autunno del 2016, la parte di Aleppo, la zona Est, ancora nelle mani dei ribelli al potere centrale ma stremata da un assedio che sta per soffocarla. Mentre intorno ci sono distese di edifici maciullati e distruttti, e continuano i bombardamenti su obiettivi militari e su civili da parte dell’aviazione russa, grazioso (ma non disinteressato) regalo putiniano al boia Bashar. E però Last Men in Aleppo niente ci dice di chi siano nell’area sotto assedio i combattenti e i resistenti, e quanto conti tra i loro ranghi l’esercito libero e quanto pesino invece gli islamisti radicali. Dalle professioni di fede cui assistiamo, dalle invocazioni a Dio e alla sua potenza, dalle voci dei tanti che si rimettono ai suoi imperscrutabil ma sempre giusti disegni, si direbbe che il fronte laico sia decisamente minoritario. Ma sono solo impressioni e deduzioni, perché le cautele degli autori nel dirci e non dirci (soprattutto nel non dirci) avvolgono fatti e protagonisti in una sorta di nebbia neutralizzante, a-politica, ed è il vero limite di un’operazione importante e nobile.
Ho espresso le mie riserve su quello che resta un film obbligatorio. Girato dal siriano Feras Fayyad, co-diretto (sul campo? in fase di postproduzione?) dal danese Steen Johannesen, arricchito con materiali visivi forniti dal Media Center di Aleppo, racconta un anno esatto – autunno 2015/autunno 2016 – in Aleppo Est assediata e costantemente sotto tiro. E lo fa attraverso le storie di un pugno di cosiddetti Caschi bianchi, organizzazione umanitaria di volontari impegnati nell’aiuto alle persone colpite. Uomini di Aleppo – prima della guerra carpentieri, commercianti, studenti – che dopo l’ennesimo bombardamento corrono agli edifici distrutti, scavano tra i detriti per soccorere i vivi e recuperare i morti e dare loro degna sepoltura. La camera segue soprattutto Khaled e Mahmoud nel loro vagare per la città e scavare, il primo un brav’uomo e bravo padre di famiglia, il secondo un giovane uomo enigmatico e taciturno, assai preoccupato della sorte del fratello minore Ahmed che lo accompagna nelle operazioni: “I nostri genitori ci credono in Turchia a lavorare, mentiamo loro al telefono, non possiamo dirgli di essere qui a lottare tra le macerie”. Si scruta continuamente il cielo, tutti gli abitanti di Aleppo Est sono ormai in grado di distinguere un aereo dall’altro e chi si sta avvicinando in base al suono. Le bombe cadono, gli edifici bruciano e crollano, il panorama sembra un enorme cimitero. Con la sua macchina da presa Feras Fayyad tallona i Caschi bianchi insieme, separati in piccoli gruppi, individualmente. Mentre si estraggono corpi ancora vivi e cadaveri, bambini che sembrano bambole di pezza disarticolate, e bambini che incredibilmente ancora respirano e si salveranno. Corpi smembrati, mani, braccia, piedi, attentamente scrutati per trarne qualche indizio sull’identità del deceduto. Ma il film va anche a cogliere e certificare la vita che nonostante continua a fluire. I bambini cui basta una breve tregua per tornare a giocare. I piccoli commerci. Khaled che installa nel suo cortile una vasca per i pesci. Disperazione, voglia di andarsene come hanno già fatto tanti, ma dove? “Visto come ci trattano in Turchia e da altre parti forse è meglio restare qui”. Invettive contro il despota. Preghiere collettive. Danze e canti di protesta in strada contro il regime. Credo che in pochissimi film fino a oggi siano state restituite e testimoniate con tanta fedeltà e partecipazione la vita e la morte sotto assedio. Immagini che non si dimenticano: la città-fantasma iluminata dalle bombe, e sembrano fuochi di festa, fuochi artificiali; un uomo che con con un telo decorato scherma il corpo della moglie appena estratto dalle macerie (e non si capisce se sia per sottrarla al voyeurismo della folla, o per ottemperare alle regole che esigono che il corpo femminile vada ricoperto, obnubilato, impedito agli sguardi degli altri uomini da morto come da vivo); la macchina dei caschi bianchi colpita da un razzo in una strada fuori città. Ma questo è anche un film di montaggio, perché è la selezione della immagini, la loro durata, il loro accostamento o scostamento a costruire la narrazione, a produrre senso, a profilare l’obiettivo dell’operazione filmica. Che è quella, in primis, della testimonianza: mostrare perché il mondo sappia e non possa dire ‘non sapevo’, perché non dimentichi, non volti la faccia. Viene il dubbio molesto che Last Men in Aleppo possa anche essere, sottilmente, un’operazione di propaganda per quanto non ci dice. Ci viene mostrata una popolazione di civili inermi e innocenti colpiti da un regime feroce, in una sorta di picassiana Guernica trasposta nella guerra civile di Siria. Quello che non viene mai detto è chi a Aleppo Est comanda, organizza, combatte, spara, resiste. Vediamo le vittime e gli uomini disarmati che prestano soccorso, non vediamo quasi mai i combattenti in azione. Forse per non inquietare lo spettatore con qualche presenza islamista e jihadista? Solo che decontestualizzando il martirio di Aleppo Est dal suo quadro storico e politico il film ci sottrae gli strumenti per capire cosa stia succedendo, chi siano gli anti-Bashar e perché lo fanno, e quale sia la posta in gioco sullo scacchiere siriano. Preparatevi a un finale che è una scudisciata, un trauma che neppure lo sceneggiatore più scaltro avrebbe potuto costruire. Ma questa, purtroppo, signori è realtà, non è finzione, come gridava il padre dei pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore.
Postilla: l’assedio di Aleppo Est si è concluso nel novembre 2016, poco dopo i fatti raccontati nel film, con la vittoria dell’esercito lealista di Bashar al-Assad. Ogni dissenso e resistenza in quella parte di città è stato debellato. E in questi ultimi giorni Bashar ha stroncato un’altra sacca che era finora sfuggita alla sua reconquista, la Ghouta di Damasco. Ultima considerazione dopo aver visto Last Men in Aleppo: triste sorte, quella di tanti paesi arabi stretti tra tirannie feroci da una parte e ribellioni inquinate dall’intolleranza jihadista dall’altra. Tertium non datur?
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