I magliari di Francesco Rosi, Rete Capri (66 dt), ore 22,30. Mercoledì 18 aprile 2018.
Un magnifico Rosi del 1959, prima di Salvatore Giuliano e molto prima dei film piglia-premi girati insieme a Gianmaria Volontè. Un Rosi aurorale, ma già decisamente orientato verso un cinema realista e di quel che allora si chiamava impegno civile, ovvero temi forti, socialmente rilevanti, affrontati con piglio robusto debitore da una parte alla lezione rosselliniana dell’immediato dopoguerra e dall’altro a quella americana di Elia Kazan. Non più solo registrazione fenomenologica del reale, ma sua decisa drammatizzazione, onde trasfigurarlo in una narrazione avvincente capace di catturare lo spettatore. Qui il tema affrontato è quella dell’emigrazione di italiani in Germania, una Germania che si lasciava definitivamente alle spalle le devastazioni belliche e viveva un’impetuosa crescita economica destinata a trasformarla in nuova potenza d’Europa. Italiani del nostro Sud immessi in un mondo e in una cultura lontani, e pure ostili, con conflitti e, per così dire, guerre culturali di attrito tra ospitanti e ospitati. Ad Hannover il buono e onesto Mario perde il lavoro. Incontra sulla sua strada il traffichino Totonno (Alberto Sordi, in uno dei suoi film non-commedia, ma più che mai Alberto Sordi, con tanto di côté laido e arruffone), di professione magliaro – ovvero spacciatore di tessuti e tappeti scadenti fabbricati in oscuri laboratori – , che finirà con il coinvolgerlo nella sua attività. La storia si dirama in più rivoli: la tedesca Paula, di cui Mario si innamora; la lotta per il controllo del mercato con i polacchi; le aspirazioni a boss di Totonno. Finirà con una sconfitta. Dramma sociale e melodramma si intersecano, in un affresco che oggi risulta prezioso, per come restituisce quella stagione di emigrazione nostra nella fredda e non così accogliente Germania. Bianco e nero, come si usava allora, a darci immagini prima di Hannover e poi della plumbea Amburgo, quartiere a luci rosse comprese. Da vedere, se non altro per ricordarsi di quando fummo massicci esportatori di manodopera, e non solo come negli ultimi vent’anni importatori. Renato Salvatori è Mario, in una parte in origine destinata a Mastroianni, ed è il buon italiano contrapposto a quello cattivo incarnato da Sordi. Ma uno dei motivi che rendono necessaria la visione è la presenza di Belinda Lee, meravigliosa creatura di origine inglese che calò a Cinecittà a fine anni Cinquanta, ebbe una breve e folgorante stagione sul set e fuori, fino a morire a soli 27 anni in un incidente d’auto, mentre viaggiava su una strada californiana al fianco di Gualtiero Jacopetti (sì, il signore dei mondo-movies). Il suo amore con Filippo Orsini, esponente della romana aristocrazia nera, aveva riempito i gossip magazine di allora, e lei era di una bellezza e sensualità da togliere il fiato. L’ho vista qualche giorno all’Oberdan, qui a Milano, nel peplum Costantino il grande, e non riesco a dimenticarla, davvero, gli occhi verdi, la faccia bella e anche spavalda e un po’ crudele, un corpo perfetto e insidioso da felino. Girò a Cinecittà film popolari e film autoriali come questo, e come La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini. Meravigliosa Belinda.
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