Doppio amore (L’amant double), un film di François Ozon. Con Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset. Al cinema da giovedì 19 aprile distribuito da Academy Two.
Quanti sghignazzi e buuh a Cannes 2017. Eppure Ozon, da quel cine-citazionista che è, rivisita con intelligenza e devozione un genere illustre, quello del noir gemellare tra Lo specchio scuro di Siodmak e Inseparabili di Cronenberg. La sofferente Chloé sta con uno psicanalista e ha per amante il suo (di lui) gemello. Seguiranno cose assai paurose, con derive horror e gran dispiego di pratiche sessuali non così allineate. Marina Vacht è una meraviglia, il dardenniano Jérémie Renier all’altezza del doppio compito. Voto 8
Che linciaggio sui social dopo la proiezione a Cannes 2017 di L’amant double, ennesimo omaggio di François Ozon al cinema, alla sua storia, ai suoi generi. E anche in sala son stati assai sonori i fischi. Sarà che Ozon ha il torto – per me è qualità rara, e sintomo di coraggio – di non stabilire complicità con lo spettatore, di mantenersene a distanza attraverso il filtro di messinscene eleganti e gelide. Insomma, non è di quegli autori empatici (che parola infame) che piaccion tanto al giorno d’oggi e fanno fremere di emozione (altra parola infame). Mica per giocare al solito gioco del contrarian, ma a me Doppio amore è parso un bellissimo film. E potrebbe capitargli quello che è successo a Personal Shopper di Assayas e The Neon Demon di Refn, accolti tra gli sghignazzi a Cannes 2016 salvo essere salutati come capolavori di lì a qualche mese dagli stessi che li avevano massacrati. Ma, dico io, si potrà anche non amare L’amant double, ma come si fa a non riconoscerne la sapienza costruttiva, e nel rifare il genere illustre del doppio (nella sua sottovariante con gemelli e gemelle). E come si fa a non riconoscere la devozione per il cinema di Ozon, e la sua consapevolezza del cinema come macchina desiderante.
Una giovane donna di nome Chloé, troppo bella per non essere anche turbata e inquieta, ha per marito uno psicanalista e per amante il suo gemello, pure psicanalista. Mentre scende in campo, e non si capisce se solo nella fantasia o anche nella realtà, la gemella di lei. Rimandi da vertigine a un’enormità di film del passato sul doppelgänger, e sull’io doppio, insieme confuso e diviso, dei gemelli, e butto lì i primi che mi vengono in mente. Lo specchio scuro di Robert Siodmak con Olivia de Havilland. E poi Inseparabili di David Cronenberg e Sorelle di Brian de Palma. Se vogliamo, pure Persona di Ingmar Bergman. A fare da baedeker in questa immersione nell’abisso tra passioni e ossessioni e scatenamenti dell’eros, il freudismo semplificato già utilizzato in film come Io ti salverò (qui la paziente si innamora del suo analista, là era l’analista a innamorarsi del suo paziente), ancora Lo specchio scuro di Siodmak e Improvvisamente l’estate scorsa di Mankiewicz. Dove l’analisi si fa griglia di interpretazione, detection, indagine, investigazione, tecnica di svelamento del mistero e dei segreti ben celati laggiù nell’inconscio.
Ozon ripercorre tutti quegli antecedenti, costruendo un’opera che è profondamente classica e nello stesso tempo adeguata a certe nuove ossessioni contemporanee che riguardano il corpo e la mente, e certe pratiche sessuali un tempo ai bordi e ora sempre più al centro delle vite (che poi siano vite spesso sciagurate è altro discorso): mutuando anche il molto mostrare e il niente nascondere dell’ormai trionfante pornografia di massa. Ma è soprattutto il corpo a essere protagonista prepotente in questo Ozon, corpo narcisticamente coltivato, esibito, ridotto a strumento di ginnastiche sessuali ardite quanto prive di ogni profondità e necessità interiore, corpi perfetti e meravigliosi quanto glaciali (la Marine Vacth di Jeune et Jolie torna, e domina con la sua bellezza) che si corrompono, si piagano, esplodono. E qui siamo nelle derive horror più radicali, con perfino mostri e cose (da questo mondo però) alla Alien. Sesso e sangue, come in infinite narrazioni e miti, come nei deliri di molte psicopatologie.
Chloé ha continui dolori addominali, nessun medico riesce ad aiutarla. Finirà da uno psicanalista, convinta che quei malesseri derivino da una disarmonia psichica e emozionale. Ma basta poche sedute e il suo analista (il dardenniano Jérémie Renier) dal nome molto psy di Paul Mayer, si innamori di lei – come dargli torto? – dichiarandosi impossibilitato a continuare la terapia. Andranno a vivere insieme. Ma dettagli minimi, progressivi slittamenti nell’ignoto, fenomeni inquietanti risospingeranno Chloé nella sofferenza. Cercherà un nuovo analista, e cercandolo scoprirà che ce n’è un altro, Jean, che porta lo stesso cognome paterno di Paul (Mayer è quello della madre). Ci va, e trova la conferma ai suoi sospetti: trattasi del gemello del suo compagno. Ma perché Paul non gliene ha mai parlato? Il plot con i suoi svelamenti e rovesciamenti e twist funziona benissimo, e una volta tanto perfino il finale non è gratuito e ce la fa a dare un senso a quanto s’è visto fino a quel momento.
Ozon, si sa, è un manierista, e lo conferma anche qui con un film massimamente elegante e stilizzato, con attori che si muovono come sonnambuli e con voluta inespressività antipsicologistica, come in certo teatro orientale. Squarciano questa atmosfera da acquario certi surrealismi alla Buñuel (la vagina che si trasforma in occhio), l’irruzione del sangue e del mostruoso. E pratiche sessuali borderline, non si sa quanto reali o quanto proiezioni della mente. Ecco Chloé a letto con i suoi due amanti gemelli che si baciano e accennano a un rapporto omoerotico incestuoso. Ecco la scena che ha fatto inorridire e sussultare i critici duri e puri del Palais cannense, la sodomizzazione attuata da Chloé sul marito Paul indossando uno strap-on, un dildo allacciato in vita. La pratica si chiama pegging e pare abbia i suoi devoti cultori. Attenzione: gran ritorno di Jacqueline Bisset. Omaggio a Polanski: il taglio corto di capelli, le occhiaie, l’aspetto androgino di Chloé sofferente (ma anche la vicina impicciona e sinistra) rimandano dritti a Rosemary’s Baby.
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