Cannes 2018. Recensione: LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher. Un film con intuizioni meravigliose, ma capolavoro no (non ancora)

Lazzaro felice, un film di Alice Rohrwacher. Con Adriano Tardiolo, Sergi Lopez, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi, Agnese Graziani, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Natalino Balasso. Compétition.
Sì, il primo dei due italiani in concorso (l’altro è Dogman di Matteo Garrone) potrebbe davvero vincere. Anche perché questo, inutile negarlo, è, deve essere, l’anno delle donne. Un film con un’intuizione meravigliosa: quella del ragazzo Lazzaro, versione rinnovata dell’archetipo dell’Innocente, del Mite, del Puro di cuore. Peccato che Lazzaro felice non segua con decisione il tragitto del suo protagonista e imbocchi caoticamente un’infinità di altre piste, deviazioni e sentieri interrotti. Ma Alice Rohrwacher ha il dono della grazia e una decisa impronta d’autore. Un film sulla purezza dei poveri, dei proletari, degli umiliati destinati (alla Elsa Morante) a finire travolti dall’avidità del mondo, svolto in forma di fiaba. Poteva essere un grandissimo film: lo è solo a metà, e anche qualcosa meno. Voto 6 e mezzo
Sì, dieci minuti di applausi ieri pomeriggio alla primissima nel Grand Théâtre Lumière, la meglio sala del festivàl. Però ragazzi, prima di montarci la testa all’italiana ragioniamo un attimo: mi riferisco al trionfo di cui si è detto nelle cronache gazzettiere, perché i dieci minuti di applausi con cast presente son di default, più la norma che l’eccezione. Vista la platea affollata di addetti ai lavori, claque, truppe cammellate, amici degli amici dei produttori nazionali e internazionali, likers ecc. Un benevolo fuoco amico di entusiasmi e applausi. Per dire: ieri sera alla Salle Debussy a un quasi ignobile horror-con-pretese argentino, Muere Monstruo Muere, già prima della proiezione ci son stati boati che neanche ai suoi bei dì per l’idolo nazionale Maradona (dopo la proiezione non saprei: son scappato subito visto che era mezzanotte passata e stamattina ci si doveva levare alle sette per essere al primo press screening della giornata). Al di là dei soliti encomi, andiamo invece dentro il film, il terzo di Alice Rohrwacher, chérie di Cannes, lanciata difatti alla Quinzaine con Corpo celeste, poi invitata e premiata addirittura con il Grand Prix al festivalissimo per il suo secondo Le meraviglie, re-invitata adesso con Lazzaro felice. Che è Alice Rohrwacher (annunciata sulla montée de marche come Alìss Rovarscèr: incorreggibili francesi) in purezza. Tutte le sue cosiddette tematiche di riferimento e le ispirazioni e i modi e le visioni e predilezioni precipitano qua dentro potenziandosi l’un l’altro e moltiplicandosi all’infinito. Generando un film di due ore e dieci, in un’epica dell’innocenza contadina e sottoproletaria travolta dal mondo e dalle sue rapacità e avidità. Siamo, quanto a fattura e messinscena, in quel campo insidiosissimo e scivoloso (e a me indigesto) di quel che vien chiamato realismo magico, con derive nell’altrettanto scivoloso e appiccicoso realismo poetico. Tutte cose che degenerano facile facile nel poeticismo grondante lacrime, retorica e buoni sentimenti con sgradevole retrogusto deamicisiano. Ecco, io col cinema di Alice Rohrwacher, che qui in fatto di realismo magico e poetico ci dà dentro senza risparmiarsi e senza risparmiarci nulla, un qualche problema ce l’ho, l’ho sempre avuto. E però devo ammettere che in Lazzaro felice ci sono, accanto a momenti per cui non posseggo i recettori e la minima sensibilità, parecchi altri molto, molto buoni. Ormai il cinema di AR è riconoscibile, che è la prova nel bene e nel male del suo essere autore vero. Un umanesimo che vuon dire stare, sempre, dalla parte degli ultimi, degli umiliati e offesi, dei travolti dalla storia, dei poveri. Una sensibilità per il mondo contadino e arcaico condannato alla servitù e allo sfruttamento ma pervaso di un’intrinseca bontà. Lo sguardo affettuoso e complice verso i personaggi (con qualche rischio di bamboleggiamento e leziosaggine). Un minuto, quodianissimo realismo che sa restituire come pochi registi oggi in circolazione l’immediatezza e la semplicità del vivere, l’eruzione dell’umano sulla scena del mondo come dato naturale. La propensione a immettere nel reale elementi, più che fantastico, di fiabesco derivato dal racconto orale, delle favole popolari, delle piccole grandi mitologie locali. E, sempre, una purezza di sguardo pure questo oggi rara. Si resta incantati da come mette in scena, soprattutto nella prima parte, la sua comunità contadina, di contadini mezzadri schiavi e rassegnati e arresi alla propria condizione, che richiama l’Ermanno Olmi dell’Albero degli zoccoli più che la civiltà agricola combattente di Novecento di Bertolucci (con il quale ci sono sì analogie, ma su altri versanti). Lazzaro felice è una fiaba che si svolge come fuori dalla storia, per poi rientrarci, nella storia, ma senza datazione precisa, senza chiari riferimenti geografici.
Parte prima. Siamo sui monti centroitaliani, forse Alto Lazio, forse Abruzzo, in una tenuta organizzata ancora semifeudalmente detta l’Inviolata dove abitano e lavorano durissimamente le famiglie contadine a mezzadria, affamate dalla feroce padrona, la marchesa Alfonsina Della Luna, e dal suo losco aministratore-fattore. Alcuni elementi certificano che siamo negli anni Ottanta (i primissimi telefonini), eppure qui siamo in un’Italia remota e perduta, con gente che non ha mai conosciuto il mondo là fuori, oltre il confine della tenuta segnato da un fiumiciattolo da loro mai attraversato. Sono tenuti dell’ignoranza, ignobilmente sfruttati (Alice Rohrwacher ha detto di essersi ispirata a un fatto di cronaca). E il più sfruttato di tutti è il ragazzo Lazzaro, un cuore semplice, un’anima candida, con nonna a carico ma genitori misteriosi e mai conosciuti, un puro che si sfianca dalla fatica, sfruttato dagli stesso sfruttati, sempre pronto a dire di sì alle peggio corvée. Pure il marchesino Tancredi, viziato e pure visibilmente debosciato, lo usa e lo soggioga a sé con una catena di manipolazioni psicologiche, eppure Lazzaro ne è felice, accetta tutto, non si rifiuta a niente. Fino a quando la situazione, letteralmente, precipiterà. E si va alla seconda parte del film, con un Lazzaro che ritorna (come tanti eroi dei miti di ogni cultura e parte del mondo) dall’oltrevita alla vita: intatto, sempre giovane, nonostante i vent’anni passati. Ritroverà tutti gli altri dell’Inviolata, ma invecchiati, loro sì corrosi e cambiati dal tempo, e li ritroverà in una derelitta comunità ai bordi di periferia di una metropoli cattivissima, un po’ Milano e un po’ Torino un po’ tutte le metropoli inospitali del mondo.
Ora, la magnifica intuizione del film è il suo personaggio principale, Lazzaro. Il Puro, il Mite, l’Innocente, il Buono, il Santo, l’agnello che si fa carico dei mali e peccati del mondo e che per tutti pagherà, inerme vittima sacrificale e vittima designata. Lo interpreta un giovane attore di nome Adriano Tardiolo dalla faccia pulita da sacro affresco devozionale, da ex voto, che è una rivelazione, e che quasi da solo veicola tutto il carico emozionale del film. Di un’allegria fanciullesca da fraticello rosselliniano. Un Lazzaro che più che a San Francesco, come sembra suggerire Alice Rohwacher in certe sue dichiarazioni, a me ha ricordato fortissimamente i personaggi di certa Elsa Morante. Con la quale le affinità sono impressionanti. Lazzaro è il buono travolto dalla Storia, l’eterno fanciullo e ragazzino destinato a salvare il mondo con il suo sacrificio. Come la Morante e al di là del differente medium usato, Rohrwacher opera una sorta di mimesi linguistica e antropologica con l’universo contadino e sottoproletario del suo Lazzaro, abbattendo ogni barriera, eliminando ogni filtro e distanza. Come Morante, ha uno sguardo partecipe e un’intensità palpitante fino alla visceralità e, ebbene sì, squisitamente femminile. Purtroppo, e qui comincia l’elenco dei segni meno del film, a impedire a Lazzaro felice di essere davveo un gran film c’è parecchio. Non c’è ossatura drammaturgica degna di questo nome, il racconto è erratico, come inseguendo suggestioni e ispirazioni molteplici e casuali, affastellando pezzi spesso irrelati e conchiusi in sé senza mai inserirsi in un intreccio coerente. Che è peccato di altri autori, per stare solo in Italia l’ultimo Paolo Sorrentino. E però Alice Rohrwacher non è ancora maestro (maestra suona malissimo) consacrato del cinema tale da potersi permettere la sfrenata anarchia di un film che già sfiora il manierismo e l’autoreplicazione. Eppure aveva, ha, il suo personaggio centrale, Lazzaro, che è una meravigliosa invenzione, solo che stranamente Rohrwacher non costruisce il film solo intorno a lui, non ne segue davvero la parabola – il Lazzaro resuscitato dopo una ventina d’anni, il Lazzaro al limite della santità -, ma imbocca continue deviazioni e sentieri sempre interrotti, in una matassa arruffata di trame e sottotrame non necessarie, o lasciate a metà e anche meno. Per dire: la storia tra Lazzaro il povero e Tancredi il marchesino, che ricorda, questa sì, l’attrazione tra i due ragazzi, poi uomini, di Novecento di Bertolucci. Eppure questo binario nrrativo, così potenzialmente ricco di implicazioni, resta inerte e sterile. Per non parlare del lupo e della sua amicizia protettiva per il povero Lazzaro abbandonato, lupo reale o immaginato che sia il quale, stando a quanto dichiarato dala stessa Rohrwacher, sarebbe ispirato a certe storie di santi. Sì, va bene, capisco l’allusione e la citazione delle mitologie popolari e devozionali, capisco il fiabesco come chiave non piattamente realista, capisco il ricorso agli archetipi, ma anche questa parte resta irrelata, non significativa, monca e tronca. E si potrebbe continuare. Lazzaro felice non ce la fa nemmeno a restituire il senso del religioso, da questo punto di vista il personaggio di Lazzaro non ha spessore, resta al di qua della linea del sacro, diversamente da quanto era riuscito a Pasolini con il character della serva di Teorema interpretata da Laura Betti. Molte sono le intuizione e moltissima è la confusione sotto il cielo dell’Inviolata e poi della triste metropoli. Dove la comunità dei derelitti ricorda un po’ troppo quella di Miracolo a Milano di Zavattini-De Sica. Com un finale telefonatissimo e più volte annunciato, ma anche goffamente risolto. Film con punte sublimi e l’impronta di un vero autore, ma anche caotico e informe, che avrebbe guadagnato da una maggiore sorveglianza e controllo. E dalla collaborazione di uno sceneggiatore sperimentato. Forse Lazzaro felice vincerà qualcosa di importante, forse la stessa palma anche perché questo, l’abbiamo capito tutti, è l’anno delle donne e i film di donne godranno in sede di giudizio di un vantaggio competitivo (negarlo sarebbe sciocco). Non sarebbe mica uno scandalo, intendiamoci. E però io, tra i film del concorso visti fino a oggi, preferirei di gran lunga il meraviglioso Shoplifters di Kore-eda proiettato stamattina. O, ma questo è un sogno che non si realizzerà mai, il film di Christophe Honoré. Ieri sul tapis rouge di Lazzaro c’erano tutti: Alba Rohrwacher, Sergi Lopez (che interpreta un nomade), Nicoletta Braschi (la marchesa schiavista) accompagnata dal marito Roberto Benigni. Più i due ragazzi che sono Lazzaro e Tancredi, Adriano Tardiolo e Luca Chikovani.

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