(al cinema) Recensione: MONTPARNASSE FEMMINILE SINGOLARE, un film di Léonor Serraille. Paula e il suo gatto soli a Parigi

Montparnasse femminile singolare (Jeune femme), un film di Léonor Serraille. Con Laetitia Dosch, Grégoire Monsaingeon, Souleymane Seye Ndiaye, Léonie Simaga. Distribuito da Parthenos.
Vincitore a Cannes 2017 della Caméra d’or come migliore opera prima. Riconoscimento fin troppo generoso per un film che, se molto promette nella prima parte, si sviluppa poi in modo assai convenzionale. Ritratto di una giovane donna mollata dal fidanzato che si ritrova sola, lei con il suo gatto, a Parigi. Classico, anche troppo, racconto di formazione femminile. Voto 6+
Ero curioso di vedermelo, questo Jeune femme (tale il titolo originale) che mi ero perso l’anno scorso a Cannes dove stava a Un certain regard e dove ha poi vinto la Caméra d’or come migliore opera prima di tutte le sezione e rassegne, che è premio della massima importanza. E ricordo le lunghissime file alle proiezioni stampa dopo che il word-of-mouth lo aveva benedetto come assolutamente-da-non-perdere. Invece abbastanza deludente, visto adesso con il suo inutilmente lambiccato e pretenzioso titolo italiano Montparnasse femminile singolare, se rapportato alle (mie) alte aspettative. Uno di quei film girati da donne sulle donne perfetti per riempire le quote rosa ai festival e barrare la casella ‘cinema femminile’, ma che fan fatica a liberarsi dalle retoriche di quello che è ormai un genere con tutti i suoi vezzi e manierismi. Con le antiche leziosaggini, musonerie, capricciosità di tante figure femminili di tante narrazioni cineletterarie rispolverate e aggiornate alla contemporaneità, e chissà perché elevate a segno distintivo di una qualche speciale quanto presunta differenza. Invece la Paula di Jeune femme è interessante, benché abbastanza insopportabile, nella prima parte del film, per poi diventare un carattere qualsiasi con un finale che non si può più sentire e vedere (siamo ancora all’utero è mio e lo gestisco io, anzi alla pancia è mia, dato talmente scontato e universalmente accettato in occidente che non si capisce come lo si possa ancora sventolare da queste parti come simbolo di emancipazione). Parte bene, in modo disturbante al punto giusto, Montparnasse femminile singolare, evitandoci i più vieti cliché del poveradonnismo, presentandoci sì una giovane donna in affanno e nei casini, ma più vittima del suo sbilenco carattere – al limite di quella che i manuali di psicopatologia definivano isteria grave e adesso non si dice più – che delle perfidie e delle oppressioni del mondo maschiosciovinista. Che dire di lei che, dopo aver invano suonato il citofono e urlato il nome del suo ex che l’ha mollata e adesso non vuole neanche aprirle la porta, sbatte la testa contro il muro fino a ferirsi e doversi far soccorrere? Una matta, ecco, e scusate la political-scorrettezza, ma vien da essere solidali con il fidanzato famoso fotografo (e si immagina come molti fotografi dotato di Ego smisurato) che dopo dieci anni di vita passati con lei in Messsico a fare non si capisce bene cosa le ha detto basta, non ti reggo più. Insomma, la regista Léonor Serraille ha il coraggio di mettere al centro del suo film un personaggio non gradevole con cui lo spettatore fa molta fatica a simpatizzare. E dunque, ecco Paula che comincia a girare survoltata per Montparnasse con il suo gatto, un regale soriano, e una borsa a cercarsi chi la ospiti e le dia una mano. Occasione per una galleria di personaggi minori e pure quelli non gradevoli, un’ex amica che si guarda bene dall’aiutarla, una sciura odiosa che la prende come babysitter e la alloggia in soffitta tra i ratti. Per non dire della madre che non la sta neanche ad ascoltare e le intima di sparire dalla sua vita, lasciandci intuire come tra lei e Paula si sia consumato qualcosa di irreparabile. La prima parte di Montparnasse femminile singolare tratteggia un ritratto acidisssimo non solo della sua protagonista, ma di un ambiente, di un reticolo di relazioni disumane dove dietro all’apparente civiltà dei modi a prevalere è la spietatezza dell’Io narcisistico. Poi Serraile sembra pentirsi, e come avere paura del baratro esistenziale e anche antropologico che sta evocando, e svolta verso lidi più rassicuranti e convenzionali. Con la sua Paula che intraprende un classico cammino di maturazione e emancipazione, soprattutto dal peggio di se stessa, alla conquista di una qualche stabiità. Che segna un cambio di registro troppo repentino, e poco motivato narrativamente, rispetto alla prima parte. Montparnasse femminile singolare resta la promessa non mantenuta di un ottimo film. Se solo Léonor Serraille si fosse liberata da certi rassicuranti cliché, se avesse seguito fino in fondo la traccia della follia di Paula, della sua alterità rispetto al mondo. Se avesse continuato a imprimere al film quel ritmo jazz, casuale, nevrotico dell’inizio, quei toni dissonanti.
Laetitia Dosch è Paula, in una di quelle performance in cui l’attore sembra abbattere ogni barriera tra sé e il personaggio. Nominata al César come migliore promessa femminile dell’anno, poi vinto da Camélia Jordana per Le Brio.

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