Peterloo, un film di Mike Leigh. Con Rory Kinnear, Maxine Peake, Pearce Quigley, David Moorst, Rachel Finnegan, Tom Meredith, Simona Bitmate. Una produzione Amazon. Venezia 75 Concorso.
Antefatti, fatti e misfatti di uno scontro di piazza che provocò decine di morti a Manchster nel remoto ma sempre presente 1819. I Reformer chiedono più democrazia, i poteri forti mandano i soldati a cavallo ad attaccarli. Mike Leigh ricostruisce minuziosamente e con un magnifico senso dell’immagine quel pezzo di storia che cambiò l’Inghilterra. Film nobile, ma troppo lungo, troppo riflessivo, più incline alla conversazione che all’azione. Voto 6

Mike Leigh
Affrescone storico di Mike Leigh alla Mike Leigh. Vale a dire con incorporati impegno sociale e denuncia dei misfatti del potere. Film di lotta e mai di governo, coerentemente con la filmografia del regista inglese più sensibile alla, chiamiamola con il suo nome, lotta di classe e resistenza popolare al dominio (insieme a Ken Loach, ovvio). Che è poi la sensibilità del pugno alzato sta ritornando sulla scena, in certe frange di sinistra del neopopolismo, nel corbynismo, nel bernie-sandersismo. E anche al cinema (chi mai avrebbe immaginato il successo in Italia di Il giovane Marx? Che ha incassato 500mila euro). Bisogna essere Leigh per concentrarsi oggi su un progetto grande e faticoso come quello di ricostruire antefatti, fatti e anche post-fatti di un massacro di piazza che ha segnato la storia inglese del primo Ottocento, e, sotterraneamente, tutta la successiva. Massacro di cui noi italiani sappiamo poco anzi niente, e dunque ben venga Peterloo che ce lo racconta e colma la lacuna. 1819. Napoleone è caduto, il congresso di Vienna ha ridisegnato l’Europa, la Restaurazione trionfa. Ma i germi messi in circolo dalla rivoluzione francese e propagati da Bonaparte continuano a essere attivi e più che mai contagiosi. Perfino nell’Inghilterra rimasta, nel sua insularità geografica e politica, fuori da quei fermenti. A Manchester – dove l’industria tessile grazie all’introduzione dei telai meccanici ha innescato quella che passerà alla storia come la rivoluzione industriale, e dove si sta consolidando il primo proletariato in senso marxiano (anche se il marx-pensiero è ancora di là da venire) – i Reformer che invocano l’apertura del parlamento ai rappresentanti del popolo, il suffragio universale, migliori salari per i lavoratori, si organizzano per dare vita a una grandiosa e pacifica manifestazione il cui rumore giunga fino a Londra, alla corte e all’inetto e trucemente reazionario principe reggente (rappresentato da Leigh come un debosciato). Il film ci racconta minuziosamente, attraverso personaggi in parte storici e in parte fictionali, il processo che portò a quel raduno di piazza, senza dimenticare le singole vite di chi ne fu coinvolto. I Reformer chiamano da Londra, per massimizzare l’efficacia dell’iniziativa, l’oratore più efficace su piazza, purtropo afflitto da un ego ipertrofico che finirà col risultare letale per il movimento. Dall’altra, i poteri locali, giudici che condannano alla forca o alla deportazione in Australia anche i responsabili di minimi reati, padroni della fabbriche, notabili, parlamentari. Tutti allarmati da quella protesta che potrebbe scatenare in Inghilterra il mal francese della Révolution. Durante la manifestazione, pacifica, manderanno l’esercito a cavallo, e saranno 15 morti e centinaia di feriti, compresi donne e bambini.
La ricostruzione è scrupolosa, certo la linea di demarcazione tra torto e ragione, tra buoni e cattivi, tra Bene e male, è nettissima, non aspettatevi sfumature. Siamo nel cinema di Mike Leigh, dopotutto. I poveri sono onesti e angelicati (sì, ci vengono mostrate anche delle frange estreme che vorrebbero tagliare la testa al re qualora non accettasse le richieste di riforma, ma restano marginali nell’economia del film), i ricchi e potenti son delle belve sanguinarie, e quei pochi ragionevoli e umani vengono tolti di mezzo. Per giustificare l’attacco ai manifestanti si tira in ballo il Riot Act, che prevede la sospensione dei diritti quando siano minacciare le istituzioni. Durata di oltre due ore e mezzo, il che rischia di trasformare Peterloo in un sorta di sceneggiato storico Rai anni Cinquanta-Sessanta tipo I giacobini, solo in versione de luxe e autoriale. Molto conversativo, poco action. Certo, Leigh è l’autore che sappiamo, in grado di creare caratteri credibili, senza ridurli, anche quando si fanno portavoce di varie “istanze”, a manichini sentenziosi, a grucce portatrici di messaggi. E che gusto squisitissimo nella composizione delle inquadrature, nel disporre persone e cose nello spazio schermico. Facce meravigliose, e meravigliosamente imperfette, che di questi tempi di bellezza omologata e anonima allargano il cuore a vederle. Dialoghi di alta scrittura benché necessariamente didascalici, molti richiami alla pittura dell’epoca. Però lo scontro finale in piazza è lento e macchinoso, forse per la scelta di Leigh di evitare i dettagli più macabri. Con il rischio, purtroppo non evitato, di abbassare di parecchio la tensione drammatica. Cinema nobile, ma troppo a tesi, troppo dimostrativo. Troppo riflessivo, compassato nei ritmi. Meglio il Leigh delle storie piccole e intime che riescono a farsi universali senza la necessità di agitare bandiere e lanciare proclami. Il senso del titolo: Peterloo per dire che quella battaglia, quel massacro di St. Peter’s Field a Manchester, fu una Waterloo. Per i Reformer, ma più ancora per la corona.
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