At Eternity’s Gate di Julian Schnabel. Con Willem Dafoe, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric, Oscar Isaacs, Rupert Friend, Niels Arestrup. Venezia 75 Concorso.
E però di film su Van Gogh non se ne può più. Da Julian Schnabel regista, e artista-totem della contemporaneità, ci si aspettava almeno uno sguardo altro, differente, difforme su un personaggio così raccontato. E invece. Voto 4 e mezzo
Da Julian Schnabel, artista-feticcio della contemporaneità e anche autore cinematografico dall’interessante curriculum, ci si aspettava almeno uno sguardo differente su Vincent Van Gogh dopo il diluvio di film degli ultimi anni (senza contare i precedenti illustri di Vincente Minnelli, Maurice Pialat, Robert Altman) sulla sua vita di tormenti e la sua opera. E sulle mostre che si susseguono senza tregua, anche perché puntualmente premiate dal pubblico. Ecco, l’auspicio era che almeno lui di discostasse dallo sciagurato binomio di origine romantica, +di cui non riusciamo a lberarci, del genio-e-sregolatezza. Che ormai imprigiona il povero Van Gogh più di quanto non fecero i fantasmi della sua mente. Capisco che la pazzia, il ricovero in manicomio, l’autotaglio dell’orecchio, la morte violenta siano elementi drammaturgicamente ireesistibili, e siano stati determinati nella costruzione dell’icona Van Gigh, ma insomma, per dirla tutta, non se ne può più. Dateci requie, please, conncentratevi su qualche altro pittore, magari un filo meno maudit. O, se proprio ha da esserci un’altra narrazione intorno a VVG, che almeno si cambi prospettiva, si tenti una qualche, magari discutibile, innovazione, ma almeno si tenti. Julian Schnabel invece con questo Alle porte dell’eternità, titolo già tonitruante e retorico di suo, resta nell’alveo della convenzione, anche se ci illude che non sia così, con la sua apparente decostruzione della linearità biografica, con il suo procedere per frammenti, accensioni, illuminazioni inprovvise, quasi a mimare con la mdp la furia espressiva del suo soggetto. Ma è un’ilusione, appunto. Perché poi il Van Gogh che vediamo resta quello di sempre, con tanta follia e tanto girovagare per i campi di Porvenza in cerca del raptus creativo (grazie a Dio ci vengono risparmiati le distese di girasoli. Che compaiono sì, ma disseccati, morti), solo un po’ meno arrabbiato e furente e più introverso, ma sempre geniale e sregolato, e geniale in quanto sregolato. Julian Schnabel sostiene di non aver voluto girare il solito biopic, di avere sì riproposto pezzi di vita ma di essersi anche liberamente inventato altri passaggi, puntando più al visionario che al cronachistico-storico-realistico. Sarà, ma il risultato è inferiore allepir lodevoli intenzioni, e tutto ci appare stanco e vetusto, mille volte già visto, mile volte già raccontato. Solo con più gusto visuale e senza cadute nel melodrammatico più vieto. Comunque, tutte le stazioni della Via Crucis, il soggiorno in Provenza per cercare il sole, i colori e l’ispirazione, poi la caduta nella pazzia, o ritenuta tale, nonostante la sollecitudine dellamato fratello Theo e di tanti che bene lo avccolsero laggiù nel Sud francese. E il ritorno al Nord della Francia, e la crisi finale. Di (abbstanza) diverso rispetto alle solite agiografie e celebrazioni genuflesse c’è un Van Gogh meno da ospedale dei pazzi e più raisonneur, anche se poi tutto quel parlare e teorizzare di arte con i più diversi interlocutori finisce con l’appesantire ulteriormente l’operazione e conferirle una patina insoppirtabilemte arty-pretenziosa. Il guaio è che è tale il cumulo di retorica consolidatosi intorno alla figura di Van Gogh che spazzarlo via è ormai impresa disperata. Willem Dafoe ha la faccia giusta. Cameos di Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric, Niels Arestrup. Quello di Oscar Isaac quale Gaugin, amico-rivale di Van Gogh (ecco, perché non indagare di più il loro rapporto?), è qualcosa di più di un cameo.
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