Recensione: ‘Fahrenheit 11/9’ di Michael Moore. Il Torquemada della mdp contro Trump

Fahrenheit 11/9, un film di Michael Moore (2018). Con Michael Moore e Donald Trump.
Ebbbene sì, un film contro Trump. Ma con dentro altre cose e altre storie – troppe altre storie – che niente c’entrano con il presidente pel di carota. Come se Michael Moore avesse assemblato spezzoni e intenzioni di film diversi e incompiuti per fare minutaggio. Rozzo, manicheo, manipolatorio nell’accostare elementi incongrui, nel costruire falsi teoremi, nel trarre conclusioni improprie e ancora più improprie generalizzazioni. Con momenti francamente infami: come si può tracciare un parallelo tra l’incendio del Reichstag e le Torri Gemelle? Voto 3

Michael Moore con il genero di Donald Trump, Jared Kushner

Uscito per qualche giorno al cinema e finito subito sulla tv generalista e non pay, precisamente su La 7 con tanto di presentazione di Enrico Mentana (si trattava di introdurre un programma sulle elezioni Usa di Midterm). E però ancora in cicriolazione in qualche cinema distribuito da Lucky Red (a Milano al Beltrade). L’ultima opera e non direi la migliore del faziosissimo e sempre-incazzato Michael Moore,tratta di Donald Trump, del trumpismo come malattia terminale delle denocrazia americana e occidentale, dell’ascesa resistibile di The Donald e della vittoria non prevista, della sua visione del mondo da discolo political incorrect e da uomo qualunque nella versione peggiorata (“sono come voi, solo coi soldi”: citazione non dal film) e gravata da pregiudizi. MM è chiaro, chiarissimo, abbacinante fin dal titolo, con quell’11/9 che sta per il 9 novembre 2016 in cui Donald vinse, e che, capovolgendo le cifre del suo precedente opus sull’11 settembre Fahrenheit 9/11 (immeritata Palma d’oro a Cannes), traccia tra i due eventi un’implicita linea di continuità e una fosca contiguità. Come a dire: i disastri per l’America e il mondo non finiscono mai, prima le Torri Gemelle, adesso il più improbabile dei presidenti possibili. Equiparando Trump – ed è puro delirio – allo jihadismo tragista. Lo dico subito: il film è pessimo, fazioso, perfino, in certi suoi passaggi, ignobile e infame (il perché lo spiegherò più avanti). Un Michael Moore al suo peggio, eppure Fahrenheit 11/9 parte piuttosto bene, promettendo qualcosa, raccontandoci qualcosa. L’attacco è folgorante, con tutti i commentatori televisivi più rinomati e gli opinion leader e gli opinion maker che già incoronano dopo i primi risultati Hillary “prima presidente donna” per poi ammutolire man mano che la disfatta democratica si palesa e avanza lo spettro del Donald vincitore. Come hanno potuto sbagliare tanto grossolanamente le migliori intelligenze o sedicenti tali del paese? E via con gli highlights della Trump Story, il prima, il durante e il dopo le elezioni, e il fondo lo si tocca con lui che smanaccia l’adorata figlia Ivanka: “se non fossi suo padre la inviterei subito fuori: ma guardate com’è bella!”, e vengono i brividi a vederlo e sentirlo. Ma fin qui, nonostante la rozzezza dell’invettiva e pure la sguaiataggine, il film di MM regge (e sono impagabili le immagini di Jared Kushner, oggi il first genero d’America, il potente marito di Ivanka, quando, un’era fa, si dichiarava ammiratore di Michael Moore e sosteneva il suo Sicko). Il guaio è quando lo straripante regista abbandona la pista Donald – la riprenderà solo alla fine – e affastella altre storie, altri materiali, altri racconti, certo sempre sull’America d’oggi ma che paiono come spezzoni o progetti di altri fim incominciati e mai portati a termine, buttati lì per non sprecare il girato, per allungare il non copioso materiale su Trump e fare minutaggio. Sono almeno tre le storie diverse che vanno a farcire questo zibaldone slabbrato e corpulento che è Fahrenheit 11/9 : il caso dell’acquedotto di Flint, la città del Michigan in cui Moore è nato, rifatto ex novo solo, secondo il nostro Torquemada con mdp, per assicurare lucrosi appalti agli amici, e risoltosi in un disastro ambiental-sanitario, giacché l’acqua verrà prelevata dai nuovi impianti da un fiume inquinatissimo. “Una manovra per chiudere in un ghetto i neri di Flint, una pulizia etnica” conclude spiccio (cito a memoria, non alla lettera) MM. Segue il ritratto di un esponente del partito democratico fortemente polemico con le gerarchie ossificate dell’apparato, un militante di base in uno sprofondo del MidWest, educe dall’Afghanistan, che conosce le pene dei suoi simili, dei red necks rimasti senza lavoro, dei blue collar distrutti dagli oppioidi, degli white trash, ed è la parte, benché sconnessa dal resto del film, più interessante. Terzo pezzo, terza storia, gli studenti di un’high school della Florida funestata da uno dei molti attacchi armati di ragazzi contro altri ragazzi, e decisi a trasformare quella loro esperienza in protesta e mobilitazione per la messa fuorilegge delle armi: riusciranno a far confluire a Washington in una colossale manifestazione gente da tutto il paese. Tutto proposto e trattato ovviamente à la Michael Moore, che è un mago sì dello storytelling, ma assai spregiudicato nel cortocicuitare e mettere in relazione fatti e elementi incongrui traendone conclusioni e interpretazioni del tutto arbitrarie, nel costruire falsi teoremi. Applicando tecniche di manipolazione e distorsive alquanto discutibili (uso un garbato eufemismo). Per dire: quando fa parlare alcuni supporter di Bernie Sanders sposa senza il minimo filtro critico e distanziante le loro accuse al partito democratico di aver falsificato i risultati delle primarie in favore di Hillary (e allora, signor Moore, come mai nessuno ha proposto di invalidare quei risultati?). Ma il peggio del film sta nell’ultimo parte, quando si paventa la deriva autoritaria e totalitaria della presidenza Trump. Vero, qualche bersaglio MM lo colpisce, e qualche brivido lo provoca, come quando ci fa vedere un Donald che, mettendola in battuta e in paradosso ma neanche troppo, lascia trasparire la voglia di cambiare la costituzione per ottenere un mandato illimitato. E però in altri momenti la faziosità di MM è insostenibile e colpevole. Rievocando la debolezza di Weimar e come quella repubblica disgraziatissima finì travolta dal nazismo (e fin qui l’allarme ci sta, e l’analogia tra quei tempi cupi e i nostri pure), ecco che ci mostra l’incendio del Reichstag e subito dopo l’11 settembre: stabilendo attraverso le immagini un’analogia pericolosa e inaccettabile. Ma vogliamo scherzare, mister Moore? Cosa vuole suggerirci, che l’attacco alle Torri Gemelle fu artatamente pianificato dal Potere – esattamente come Hitler aveva provocato l’incendio del parlamento incolpandone poi i comunisti – per giustificare una stretta repressiva delle garanzie individuali e democratiche? Ma vi par possibile che un cineasta, discusso ma comunque con Palma d’oro sulla mensola del salotto, scada nei più deliranti cospirazionismi e complottismi? E vogliamo parlare di quando ci mostra un Hitler comiziante sincronizzandone le labbra con la voce fuori campo di Donald Trump? Trump=Hitler? Non bastassero queste falsificazioni e manipolazioni, una vera fabbrica di fake e tendenziosità, Moore nella sua ansia distruttiva e giustizialista tutti travolge e nessuno salva. Se Hillary era un bersaglio immaginabile, molto meno lo è Obama, additato da Moore come colluso con le peggio lobby. Sì, bisogna indignarsi, ma contro un cinema come questo.

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