La paranza dei bambini (titolo internazionale Piranhas), un film di Claudio Giovannesi. Con , Renato Carpentieri. Competition.
Delude abbastanza il film tratto dal libro di Roberto Saviano. Troppi cliché, troppi ricalchi di storia di ascese criminali già viste. E titolo ingannevole: la banda che dà l’assalto al potere criminale in un rione napoletano non è composta da infanti, ma da adolescenti quasi maggiorenni, e scusate non è proprio la stessa cosa. Film benissimo girato da Claudio Giovannesi, ma il tentativo di rivoltare-innovare il genere gomorre-e-suburre va a vuoto. Voto 5 e mezzo
Non so cosa si sia letto in Italia delle proiezioni berlinesi della Paranza dei bambini, unico italiano in corsa per l’Orso d’oro. Immagino che i report, soprattutto su certi media cartacei e non, abbiano suonato la solita fanfara, del tipo: trionfo, standing ovation, venti minuti di applausi, emozione in sala, probabile Orso. Perché purtroppo va così: quando si è ai festival all’estero scatta il “bisogna sostenere il cinema italiano”. Anche, dico io, oltre ogni ragionevolezza, anche a costo di stendere un velo di maquillage sulla realtà. Alla proiezione cui ho assistito di La paranza dei bambini ci sono stati applausi di normale durata e intensità, nessuno è svenuto per la commozione, e alla immediatamente successiva conferenza stampa (presente la superstar internazionale Roberto Saviano, dal cui libro è tratto il film) sala neanche così piena di giornalisti. Questo ho visto, questo posso dire. Poi magari questo film abbastanza medio, decorosissimo e certo assai ben fatto ma, in my opinion, deludente (almeno rispetto alle attese che c’erano visti i nomi in ballo nel progetto), vincerà davvero. E sarebbe comunque una bella notizia per il nostro cinema che di riconoscimento ha un gran bisogno. Punto.
L’impressione è che La paranza dei bambini sia una lucida, e peraltro sacrosanta e necessaria per il nostro asfittico sistema cinema, operazione industriale, nata più come progetto produttivo che autoriale. Con l’obiettivo di realizzare un film italiano di qualità in grado di incassare decentemente sul mercato interno e di aprirsi varchi all’estero, sfruttando quello che è ormai è un genere certificato di successo e di esportazione, il cineromanzo criminale di gomorre e suburre. Niente di male, anzi ottima cosa. Anche perché si è chiamato alla regia un trentenne, Claudio Giovannesi, che con i suoi due lavori precedenti, e più personali di questo, aveva dimostrato di saper raccontare storie di formazione di marginalità e piccole criminalità in una chiave più intima, riflessiva, e antropologicamente pasoliniana rispetto alle solite gomorrate televisive. Alì ha gli occhi azzurri e Fiore erano, sono, due bei film, e più il primo del secondo. Trovandosi a maneggiare una progetto più costoso come La paranza dei bambini, Giovannesi supera la prova mostrando un totale e assai maturo controllo della macchina produttiva e registica. Eccellente scelta e direzione degli attori, a partire dal giovanissimo protagonista, abilità nel tenere i ritmi dell’action, portando comunque dentro il film la sua sensibilità per le vite giovani deragliate. Ma il formato Gomorra – questo si configura anzi come un Gomorra in versione adolescenzialista, un Gomorra junior – è talmente ferreo e costrittivo da prevalere su ogni tentativo di rivitalizzarlo. Poi, certo, applausi alla confezione impeccabile, all’abilità da parte dei produttori di radunare tanta brava e bravissima gente: oltre a Giovannesi, Maurizio Braucci alla sceneggiatura (un signore che ha scritto, tanto per dire, il Pasolini di Ferrara, Bella e perduta di Pietro Marcello, L’intrusa di Leonardo Di Costanzo) e alla direzione della fotografia il grande Daniele Ciprì. Eppure questo è il classico caso in cui il risultato è inferiore alla somma dei telenti coinvolti.
Son tante le debolezze strutturali. Fin dal titolo ingannevole. Io, che non avevo letto il libro di Saviano, mi aspettavo un ritratto senza sconti e cedimenti sentimentali su un branco di bambini inselvatichiti dal contesto criminale, vittime che diventano carnefici di sé e degli altri. Invece qui non ci sono bambini, semmai degli adolescenti che, scusate, non è proprio la stessa cosa, ragazzi sui sedici anni oltretutto interpretati da attori che paiono averne qualcuno di più. Sono ragazzi che diventeranno boss neanche così piccoli, purtroppo raccontati e rappresentati con un’indulgenza e una vicinanza che finisce con l’ovattare il senso del male. Manca il distacco, manca lo sguardo distante.
Il limite maggiore sta nell’accumulo di stereotipi del genere italo-criminale, anzi partenopeo-criminale. Dopo la scena iniziale dell’albero di Natale conteso e divelto, il plot procede a pilota automatico innestato, niente che non si sia già visto una, cento, mille volte. Il ragazzo Nicola e i suoi amici di vicolo, sì e no una decina, decidono che è ora di passare dal ruolo di succubi dei camorristi che gestiscono la loro parte di Napoli, l’eduardiano Rione Sanità , a quella di protagonisti, di vincenti. Cominciano come spacciatori al servizio del monopolista locale dell’hashish. Ma verrà presto per Nicola e i gli altri il salto di carriera, il piano di espropriare la famiglia che ha il controllo del quartiere e prenderne il posto, di installarsi come nuovi padroni della Sanità. Che è poi una storia di ascesa criminale che tante volte abbiamo visto al cinema e di cui il depalmiano Scarface resta l’eterno, inscalfibile modello di riferimento, e storia qui puntualmente replicata. Trionfa il déjà-vu. Ecco, dopo il Gomorra film e serie, ancora il kitsch partenopeo-camorristico, gli interni di broccati e dorature da Versailles degli stracci e della miseria subculturale. Con i ragazzetti che si stropicciano gli occhi davanti al cafonismo e alla ricchezza esibita dagli arrivati del crimine, e naturalmente vogliono diventare come loro, presto, subito, domani, oggi, adesso. E la musica neomelodica, il matrimonio smargiasso, i rotoli di banconote. No grazie, basta così, abbiamo già visto, abbiamo giù dato. Oltretutto incongruenze incomprensibili. Come si fa a pensare di sfidare, da ragazzini, un’intera famiglia criminale al potere? E come si fa a cominciare la guerra con una pistola rubata a un metronotte? Ed è plausibile il patto con un potente camorrista per avere delle armi? Ed è incredibile che Nicola e i suoi amici e i suoi fratelli di crimine ce la facciano davvero a conquistare il potere e non vengano spazzato via nella solita mattanza e regolamento di conti. Ancora: la mamma che non vede non capisce, la fidanzatina (interpretata da una ragazza di meravigliosa bellezza che si chiama Viviana Aprea) che continua a sognare anche quando si comincia a sparare e scorre il sangue. Qua e là trapela l’intenzione di, se non rivoltare il genere, almeno di immettervi qualche anticorpo, qualche disallineamento, qualche scostamento rispetto alla convenzione. Come l’alleanza tra Nicola e il rampollo della famiglia spodestata intrisa di un qualche sottinteso omosessuale, appena accennato e subito piallato via, che non sia mai. O il party selvaggio-quasi orgia con tanto di trans a concupire il più giovane della banda. Ma il format non viene neanche scalfito. E sempre più il film si fa indulgente con i suoi ragazzi anche quando sparano. Quando poi vediamo Nicola nuovo boss togliere il pizzo ai poveri ambulanti angariati dal precedente tiranno cascan le braccia. Per come si fa passare l’equivoco che era di tante vecchie sceneggiate filmiche alla Mario Merola di una camorra buona contrapposta a una camorra cattiva. Ma siamo matti? E si va verso un finale aperto, che non conclude, non prende posizione, non condanna e non assolve. Il caso ha voluto che un paio di ore dopo sia andato a vedere un film passato al Sundance e lì credo anche premiato di un un qualche premio, e planato in questi giorni alla Berlinale nella sezione Panorama, un film con parecchie affinità con La paranza. Monos, di un giovane regista colombianocon studi e pratiche di cinema nordamericani, come il film di Giovannesi mette in scena un nucleo armato di quindici-sedicenni, una cellula ribelle nella foresta colombiana tipo FARC. Si resta soggiogati per quasi due ore dal gioco crudele all’interno e all’esterno della banda, dalla capacità dell’autore di creare un oggetto cinematografico perturbante che ci ricorda, sulla scia del Signore delle mosche, come gli innocenti possano rivoltarsi in carnefici. Altro che questo timido La paranza dei bambini.
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