Ma mère di Christophe Honoré, Cielo, ore 0,05. Venerdì 22 marzo 2019.
Uno dei film che hanno fatto di Isabelle Huppert ciò che è, vale a dire una delle più grandi (la più grande?) attrici in circolazione: per come si fa co-autrice, insieme a regista e sceneggiatori, dei suoi personaggi, per come li riplasma e li adatta a sé (e adatta se stessa a loro), e per l’audacia delle sue scelte. Per dire: La pianista di Haneke e Elle di Verhoeven e questo disturbante – sì, perfino più della Pianista – Ma mère del 2004, firmato da uno dei registi francesi più coerenti e fedeli a una propria idea di cinema, Christophe Honoré (un maestro ormai, vedi Métamorphoses e Plaire, aimer et courir vite; peccato che in Italia lo si consideri men che nessuno, ignorato anche dalla guerrilla critique). Già mettersi in testa di portare su schermo e schermi il romanzo postumo dallo stesso nome di Georges Bataille è una sfida da paura, per come il teorico dell’orgasmo quale petite mort arruffa e mescola Eros e Thanatos, per il suo catalogo di esplorazioni sessuali oltre ogni confine. Honoré contemporaneizza il romanzo e lo colloca giustamente a Gran Canaria, isola-sfacelo di tutte le morali, discarica del più sfrenato turismo d’Europa, luogo di ogni convulsione erotica e di ogni abuso di sostanze alteranti. Tempio del ritorno di Dioniso. Gran Canaria – come altri luoghi di Spagna ma non solo – quale gran bazaar e scambio della merce sesso, pozzo nero di ogni pulsione e desiderio.
Il ragazzo Pierre – un Louis Garrel ancora adolescenziale – lascia la scuola cattolica dove ha studiato per raggiungere i genitori nella loro casa alle Canarie. Si renderà conto che il matrimonio tra i due è collassato da un pezzo tra disprezzo e reciproci tradimenti. Il padre muore, Pierre resta con la madre Hélène, che venera come un idolo. Sarà lei a introdurlo al sesso e ai giochi più promiscui e pericolosi con la complicità della sua amica di scorribande erotiche Réa. Ce n’est qu’un début. Perché con mamma, attraverso di lei o senza di lei, Pierre sperimenterà il sesso come esperienza assoluta. Masturbazioni sulla collezione pornografica segreta del padre. Voyeurismi e esibizionismi. Orge con mamma and his friends, uomini e donne. Fino all’inevitabile incesto con l’idolo, forse infranto forse no, Hélène. Con un finale tra i più sconvolgenti che il cinema ci abbia dato negi anni Duemila, e che non è bene rivelare. Honoré resta fedele a Bataille e alla sua visione della sessualità come vita e morte, come forza insieme vitale e distruttiva. Se l’operazione riesce – il film trova la misteriosa giusta misura tra vicinanza e distacco rispetto alla spesso laida e insostenibile materia narrata – è anche, soprattutto?, perché c’è Isabelle Huppert. Con quella maschera insieme impassibile e dolente, con quello sguardo di chi ha tutto visto e conosciuto. Qui mater dolorosa che attraversa l’inferno insieme col figlio per condurlo, forse, alla redenzione e alla salvezza. O almeno alla conoscenza. Ci sarà una vittima sacrificale, perché ogni salvezza esige un sacrificio, e non sarà Pierre.
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