Recensione: BORDER – CREATURE DI CONFINE, un film di Ali Abbasi. Chi è Tina?

Border – Creature di confine (Gräns) di Ali Abbasi. Con Eva Melander, Eero Milonoff, Ann Petrén, Jörgen Thorsson, Sten Ljungren.

  • Tina è dotata di un eccezionale fiuto che le consente (lavora come guardia di confine) di scoprire merce contrabbandata, ma anche anomalie, tare, tendenze criminogene dei passeggeri. Ha una faccia diversa, inquietante. Sarà solo incontrando un suo simile che scoprirà la propria origine. Girato in Svezia da un giovane regista (39 anni) della diaspora iraniana, Border è nei modi dell’horror un’evidente metafora delle linee di faglia che, al di là dell’apparente compattezza, percorrono la società nordica. E non solo. Premiato a Cannes 2018 come migliore film di Un certain regard. Nominato all’Oscar (categoria make-up). Voto 7 e mezzo
    Allo scorso Cannes Border diventò immediatamente, dopo la prima proiezione a Un certain regard, un film-da-non-perdere, grazie soprattutto al passaparola innescato dai ragazzi francesi della guerrilla critique, la più sensibile a un cinema come questo che ricorre ai codici del genere, dei generi, per illuminare per via metaforica i lati in ombra della contemporaneità. Certo in quei giorni, di fronte a un’opera tanto eccentrica e difficile da classificare, nessuno, pur apprezzando, poteva immaginare la strada che il film di lì in poi avrebbe fatto – Border ha avuto riconoscimenti dappertutto, fino a strappare una nomination all’Oscar, anche se in una categoria tecnica, quella del makeup – e nemmeno si pensava che a fine festival una giuria illuminata presieduta da Benicio Del Toro lo avrebbe premiato come miglior titolo di Un certain regard preferendolo ad altri meglio piazzati nei pronostici.
    Border, nell’originale svedese Gräns, si configura fin dal programmatico titolo come una perlustrazione dei confini, dei bordi. E delle esistenze, degli umani e non umani che si situano lungo linee di faglia, di rottura, di separazione, oltrepassandole o restandone inesorabilmente segnati e limitati, intrappolati, territorializzati. Titolo metafora quant’altri mai. E Dio mio, quanto si usa la metafora da un po’ di tempo in qua nel cinema autoriale e non solo: ho rivisto qualche sera fa Burning del sudcorean Lee Chang-Dong (presto in sala distribuito da Tucker), dove la metafora è letteralmente tutto, è il nucleo della stessa narrazione e la chiave per entrarci. Per non parlare dell’imminente Noi/US di Jordan Peele e perfino di Dumbo. Ma non si tratta, in Border, di mala pratica intellettualistica per marcare il territorio rispetto al cinema non colto, ma di un dispositivo retorico e narrativo per disvelare altro; in questo caso si parla di creature di confine – stavolta un sottotitolo italiano azzeccato – per raccontare le ben dissimulate ma potenti e resistenti fratture etnoculturali dentro la compagine sociale svedese (e scandinava tutta), per suggerire le differenze tra autoctoni e stranieri venuti da fuori e da molto lontano. Ma anche, soprattutto?, per alludere agli stranieri per così dire interni alla stessa Svezia, quel popolo Sami detto impropriamente lappone oggetto-vittima per lungo tempo di politiche di ‘igiene sociale’ di esclusione, discriminazione, cancellazione culturale, assimilazione forzata. L’anno scorso è uscito nelle nostre sale un film, precedentemente dato a Venezia 2016 alle Giornate degli autori, Sami Blood, in cui esemplarmente, pure troppo, si affrontava la questione attraverso la vita complicata di una donna. Che rifuta in nome di un’integrazione mai del tutto realizzata la sua origine Sami per poi recuperarla e farci i conti in tarda età. Ecco, Border, se appena lo si guarda oltre la mera superficie di film di genere benché sui generis, lo si può anche vedere come le continuazione con altri codici linguistici e in altre forme narrative di quel film, la messa in scena nei modi dell’horror di quella prevaricazione culturale. Con alla base un testo dello scrittore svedese John Ajvide Lindqvist, già autore di Lasciami entrare (da cui il film di Alfredson). Le molteplici allusioni a un universo nordico non così conciliato, levigato, unifome come vorrebbe la vulgata ancora resistente dei paradisi scandinavi, scaturiscono da un racconto semplice quanto di massima efficacia e forza espressiva. Quello di una donna di nome Tina dallo sgradevole aspetto – tratti alterati e come bestiali del viso che un tempo si sarebbero detti lombrosiani – dotata però di un prodigioso fiuto, qualità che fa di lei una funzionaria insuperabile alla dogana. Una qualità sensoriale, del senso più rimosso e sconveniente, percepito come il più basso e bestiale, che le permette di cogliere merce contrabbandata, ma anche anomalie, scorrettezze, imperfezioni, tendenze criminogene o psicopatologiche dei viaggiatori. Vive con il padre anziano in una casa ai margini della città, ha un docile fidanzato-amante. Eppure c’è una sotterranea dissonanza in lei e nel suo mondo, come se niente, nonostante l’ordine apparente, fosse al suo posto. Un ordine che va in frantumi dal giorno in cui, nell’esercizio delle sue funzioni di doganiera, fiuta letteralmente in un passeggero qualcosa di diverso e oscuramente attraente. Rivedrà quell’uomo, di nome Vore, sarà coinvolta in una relazione corporale e plurisensoriale che la rivelerà a se stessa. Vore è della sua stessa natura, un diverso come lei, e di più è meglio non dire, se non che i due – scopriremo – appartengono alla popolazione dei troll, una sorta di specie parallela considerata dagli umani perfetti – dagli umani sedicenti superiori – quasi bestiale. Un popolo che è stato occultato e silenziosamente sterminato.
    Che sia stato un autore transfrontaliero, cosmopolita, come Ali Abbasi – iraniano di nascita, danese di residenza, svedese di adozione e di passaporto – che i confini geografici e culturali li ha dovuti attraversare, a portare al cinema questa storia vorrà pur dire qualcosa. La sua empatia verso la coppia protagonista Tina-Vore è evidente e, in questa perlustrazione del cinema di genere e nella categoria del differente e del freak, in questo uso del mostruoso orrorifico come metafora, si affianca ca un’altra giovane regista della diaspora iraniana, la Ana Lily Armipour che ci ha dato negli anni scorsi prima A Girl Walks Home Alone at Night e poi The Bad Batch, premiato a Venezia. La donna-troll di Border è clandestina, esule nella propria patria, estranea a se stessa al punto da non conoscere la propria identità e da ritrovarla solo per un caso fortuito. E con il gioco delle metafore si potrebbe continuare all’infinito, ad esempio col dire che Border è anche la rappresentazione della nostra – di noi tutti – animalità perduta, della nostra corporalità sacrificata ai processi di civilizzazione.
    Del film contano, al di là della sua messaggistica attraverso metafora, la messinscena in sé, il suo buon funzionamento come macchina narrativa, anche la sua sgradevolezza che non scende a patti con la carineria ormai obbligatoria. Difficile non restare turbati dalla faccia di Tina e Vore (onore agli attori che hanno accettato i ruoli e ai makeup-artist che li hanno resi insieme lontani e vicini a noi), soprattutto quando Tina esercità il suo superpotere olfattivo. Si vorrebbe rintracciare una qualche affinità con tanto cinema iraniano d’autore che abbiamo visto e amato, ma Ali Abbasi sembra aver reciso ogni possibile derivazione, mimetizzandosi e mimetizzando il proprio talento e la propria identità originaria sotto altre forme cinematografiche, altri stili, altri linguaggi. Uno di quei registi émigré di cui la storia del cinema è ricca e che se talvolta si sono disintegrati a contatto con un nuovo mondo, più spesso vi si sono perfettamente adeguati portandoci comunque il gusto e il germe della diversità, e penso, solo per fare qualche nome, a Roman Polanski, a Billy Wilder, a Ang Lee.
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