Cannes 2019. Recensione: SORRY WE MISSED YOU di Ken Loach. Un grande film (ma solo al 60%)

Sorry We Missed You, un film  di Ken Loach. Con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor. Compétition.
Un quarantenne è costretto ad accettare un lavoro (consegna pacchi e plichi) di massimo stress e alienazione. Ne risentiranno equilibri e affetti di famiglia. Finché Ken Loach osserva la progressiva disumanizzazione del lavoro oggi, la sua scomparsa e la mutazione in nuove forme robotizzate, il risultato è magnifico. Poi purtroppo si imboccano troppi sottofinali e finali, gli eventi si accumulano meccanicamente. E il film si trasforma in una parabola fin troppo dimostrativa. Voto 6 e mezzo
Certo, il solito Ken Loach, ma avercene sant’Iddio. Nessuno come lui, o pochi altri come lui (Guédiguian, Brizé) sanno indagare via cinema i nuovi territori e i non luoghi di quella cosa sparita anzi mutata in nuove forme e formule anche linguistiche che si chiama, si chiamava lavoro. Ancora qui l’ultraottantenne Ken? Ancora in concorso a Cannes a battersela con giovanotti e giovanotte dopo due palme d’oro e una gloriosa carriera di lider maximo del cinema vetero- e neo-operaista? Non era il caso – sussurra e grida il malovente che c’è in te, pronto a deflagrare con rabbia dopo giorni di file estenuanti e altri sadismi comminati da questo festival – di lasciarlo stavolta fuori dal concorso dedicandogli magari una di quella séance spéciale con standing ovation garantita e presentazione pomposa? Poi parte sullo schermo (della Debussy, ore 22,00) la prima sequenza di Sorry We Misse You e ri ricredi e ti penti dei tuoi cattivi pensierti. Dopo la palma Io, Daniel Blake Loach torna a trattare di lavoro che non c’è, si è trasformato e transustanziato in qualcosa di sfuggente, fumoso, impalpabile (ne approfitto per segnalare il libro appena usciito di Emanuele de Nicola che al lavoro nel cinema è dedicato e dal bel titolo La dissolvenza del lavoro, Ediesse). Sorry We Missed You è un’altra lezione esemplare, benché putroppo solo per metà o poco più di narrazione, perchépoi  il Maestro si perde in subfinali e finali indecisi a tutto, aggrovigliati, confusi e contraddittori. Ma va bene lo stesso, quel 60% di film riuscito è a altitudini siderali, specie se raffrontato a tanta roba(ccia) cui tocca assistere ai festival. Il dialogo tra il protagonista Ricky, un quarantenne di Suderland, Inghilterra, in cerca i un’occupazione di una certa stabilità dopo anni di lavorucci e lavoretti – è la gig economy bellezza – e il minaccioso (sembra un bodyguard più che un imprenditore) titolare di un’agenzia di consegna pacchi, è esemplare del nuovo già ampiament avanzato. Ricordati, gli dice l’energumeno, tu non sei un lavoratore dipendente, tu sei il boss di te stesso. Qui non si parla di salario, solo di onorari. E via così, in una cosmesi linguistica che imbelletta ipocritamente quello che è solo il vecchissimo, sempiterno sfruttamento. Il lavoro offerto a Ricky è un franchise. Tradotto: i costi e gli investimenti, tipo il furgone, toccano a lui, i i profitti al padrone. Si apprende di più su cosa sia oggi il proletario mestiere di vivere e sopravvivere da questa scena che in cento talk show e mille inchieste, una lezione che Loach sa impartire senza la minima pesantezza didascalica, bravo com’è a calare il discorso e il messaggio nella pratica del quotidiano, a tradurre gli astratti giochi dell’economia in schegge di esistenze. Il film al suo meglio è la cronaca implacabile, giorno dopo giorno, della vita di Ricky e della moglie Abby, assistente di anziani e disabili a domicilio, dei due figli, un adolescente intelligente e scorbutico di nome Seb che diserta la scuola per graffitare i muri della città e colmo di rancori edipici verso il padre, e la più giovane Liza Jane, una ragazzina perspicace e intelligente che intercetta ome un sismografo ogni tensione in casa e la trasforma in nevrosi. Questa parte di Sorry We Miss You è girata in stato di grazia, con un ritmo interno soncronizzato su quello della vita, e con un’indignazione pudica mai gridata, mai comiziante. Vediamo Ricky a poco a poco disumanizarsi e robotizzarsi in un lavoro progammato e controllato attraverso i vari device digitali, il suo scivolare in una spirale dove contano solo i tempi di consegna, la performance, il rispetto dei piani e degli orari. Con il lato del Loach commediante (ricordate La parte degli angeli?) che spunta qua e là, come negli incontri di Ricky con i clienti, ora odiosi ora gentili ora bizzarri (e la lite col tifoso è magnifica per naturalezza dei dialoghi e precisione dei riferimenti).
Si partecipa alle disavventure del povero Ricky, vessato sul lavoro dall’orrido boss Maloney (il cui eloquio autoelogiativo – questa azienda l’ho tirata su io dal nulla e adesso, guardate, ho per clienti Zara, Amazon! – sembra modellato su quegli orrendi manuali di self improvement che han fatto più danni all’umanità di una guerra nucleare) e alle prese con grovigli familiari sempre più complicati. Veniamo a conoscere da vicino tutti i perversi meccanismi di certo lavoro, dove l’umano diventa protesi, appendice insignificante e meccanizzata di una macchina organizzativa astratta e feroce che tutto riduce all’efficienza e all’ottimizzazione (un altro orrido lemma di questi tempi), dove perfino le pause per pisciare vengono contabilizzate. Intanto, lo stress del capofamiglia si ripercuote su moglie e figli, gli equilibri privati vacillano, il nucleo dei quattro entra in fibrillazione. E la rivolta edipica del figlio contro il padre si fa veemente.
Finché Loach si attiene al referto della vita alienata working class repertando e mapppando i cunicoli dello sfruttamento postmoderno, anzi postindustriale, mette a segno un film all’altezza dei suoi migliori. Poi precipita nel melodramma social-familiare con forzatissimi twist narrativi che si succedono meccanicamente e incongruamente (per dire, le oscillazioni non spiegate del figlio tra ribellismi e docili ritorni all’ovile) e un finale francamente balordo. E quella che era pulsante cronaca di vita si trasforma in via crucis dalle stazioni prevedibili, in una ingessata parabola dimostrativa. Peccato.

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