Smetto quando voglio – Ad Honorem, un film di Sydney Sibilia. Rai 3, ore 21,20, venerdì 14 giugno 2019.
Recensione scritta all’uscita del film.
Smetto quando voglio: Ad Honorem, di Sydney Sibilia. Con Edoardo Leo, Stefano Fresi, Pietro Sermonti, Valeria Solarino, Neri Marcorè, Libero De Renzo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Marco Bonini, Lorenzo Lavia, Peppe Barra, Luigi Lo Cascio, Greta Scarano, Rosario Lisma.
Questo buonissimo episodio numero tre dimostra come anche noi (italiani) possiamo realizzare un franchise di successo. Si ricompatta la banda dei disoccupati intellettuali riciclati in aspiranti criminali, e stavolta a fin di bene. La commedia italiana guarda oltre, ed era ora, occhieggia ai millennial, incrocia generi e riferimenti plurimi. Operazione riuscita. Voto 7+
Arrivata al numero tre, la saga dei disoccupati sapienti riciclati in criminali sgangherati conferma di essere il meglio partorito negli ultimi anni dal nostro cinema nel campo “rinnovamento generi e rami vari della commedia all’italiana”. Si prende – bene – da tutte le parti, dai Soliti Ignoti e da Breaking Bad, da Gomorra e da Suburra, perfino da James Bond. E mi riferisco al villain-mad doctor di Luigi Lo Cascio che con le sue smanie di distruzione di massa potrebbe stare al centro di uno Ian Fleming-movie. Il tutto innaffiato dai sociologismi spiccioli e da inchiesta giornalistica sui cervelli in fuga, la sottoccupazione intellettuale, il precariato di massa, la nuova classe disagiata, il proletariato cognitivo (intendiamoci: faccenda serissima, quella di una generazione istruita e però massacrata dall’assenza del lavoro, sacrificata dalla ripartizione ineguale delle risorse a suo sfavore e a favore dei padri e dei nonni, e però faccenda troppo spesso buttata in retorica e lagna e indignazione anticapitalista-antiindustrialista di bassa, qualunquistica lega). C’è tanta roba insomma, dentro alle provette di questo SQV e dei due precedenti, tanta ed eterogenea. Eppure l’operazione funziona, ha funzionato fin dal primo fondativo episodio della serie – o lo vogliamo chiamare franchise? Perdipiù – cosa nient’affatto scontata – Sydney Sibilia sa girare, con quella abilità da cineasti giovani che hanno fatto pratica in tutte le branche dell’audiovisivo oggi, video musicali, pubblicità, promo e quant’altro, e con un senso dell’immagine, con un’estetica massimalista e sgargiante, di colorismi accesi fino alla violenza cromatica, di striature acide e luminescenze quasi lisergiche e neopop che è assai contemporanea e internazionale e però ancora poco nazional-italica (l’unico che gli si può accostare visivamente è forse Stefano Sollima). Abituati come siamo da sempre a una commedia italiana meravigliosamente scritta e recitata – parlo anche della Golden Age dei Monicelli, Risi, Germi ecc. – e però cauta e tradizionalista nell’uso della macchina da presa, nella grammatica e sintassi cinematografiche, la saga SQV segna un cambio di marcia nel suo intersecare la capacità di racconto con una visione di cinema non priva di audacia. E giustamente intemperante. La macchina da presa si muove, balla, e non è mica così poco, segnale ulteriore di un cinema, il nostro, che pur sottotraccia, senza darlo troppo a vedere, sta cambiando, esplorando parecchio e in più modi e direzioni (penso anche all’ormai folta produzione indipendente da cui vengono cose sempre più interessanti, anche se al momento rigettate dal mercato, e dico qualche titolo: A Ciambra, L’intrusa, Sicilian Ghost Story, Easy).
Cinema, quello di Sibilia, anche per (e su) i millennial, generazione che in sala va pochissimo, ma che qui può rintracciare qualcosa di sé, del proprio vivere e sentire. La banda di laureati nelle più varie discipline, dalla filologia e glottologia alla chimica, che dopo tanto precariato mettono a frutto le proprie competenze fabbricando e spacciando nuove smart drugs, insomma avviandosi non senza godimento sulla strada della criminalità, ritorna, e stavolta per agire a fin di bene. Finiti in galera dopo i disastri del precedente episodio, oltretutto dispersi in varie carceri, si ricompattano a Rebibbia agli ordini del neurobiologo Zinni (Edoardo Leo) per fermare un ex professore che ha dato fuori di testa e medita tremendissima vendetta. La sgangherataggine tutta italica da Soliti ignoti si sposa ai modi e ai vizi e perfino vezzi della nuova criminalità coatta e camorristica, tra la solita Gomorra e mafia capitale. Operazione già tentata, e con buoni esiti, anche in Lo chiamavano Jeeg Robot ma, in my opinion, condotta qui con più senso dell’intrattenimento e più consapevolezza del passato illustre della nostra commedia. Credo che a oggi SQV sia il migliore esempio di un cinema italiano neopopolare che medita sul proprio enorme patrimonio e insieme lo rielabora all’altezza (o alla bassezza) dei tempi. Incrociando la italian comedy con infiniti altri generi, dal noir alla romana al caper movie. Anche, un franchise ben riuscito e di successo, l’unico del nostro cinema recente (questo terzo capitolo ha superato i due milioni di incasso e la corsa non è ancora finita). A quando la serie? Bellissime, e benissimo rese nella fotografia sgargiante, le architetture fascio-razionaliste della Sapienza, interni, esterni e dintorni.
Da segnalare il grande Peppe Barra quale direttore del carcere ansioso, assai modernamente, di ben figurare con i media con le sue iniziative di recupero-redenzione di detenuti. E quel Barbiere di Siviglia con Fresi tenorino di grazia allestito in carcere è irresistibile (Peppe Barra ritorna anche nel nuovo Ozpetek Napoli velata).
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