Dove non ho mai abitato di Paolo Franchi. Rai 3, ore 23,50, martedì 2 luglio 2019.
Ci sono autori che sono quasi per determinazione genetica dei fuori rango, dei non allineati. Orgogliosi della propria autonomia e alterità, irriducibili a ogni medietà. Una specie antropologica non così diffusa in Italia, terra di conformismi e adeguamenti, di appartenenze identitarie forti e anche oppressive che molto reclamano dal singolo, una terra non precisamente fertile per avventure solitarie e fuori branco. In un sistema cinema com’è il nostro nazionale, dominato dalla commedia, da pochi generi codificati, anche da un engagement politico quasi obbligatorio, lo spazio per le voci fuori dal coro continua a essere minimo. Paolo Franchi, bresciano, è tra i pochi cineasta che negli anni Duemila si siano mossi lontano dal mainstream allineando titoli malamati se non addirittura diventati oggetto di scherno e scandalo, da La spettatrice fino a questo Dove non ho mai abitato, passando per Nessuna qualità agli eroi (clamorosamente fishiato a un lontano Venezia) e a quell’E la chiamano estate che fece discutere e sparlare i frequentatori di un Roma Film Festival. Amato-detestato, Franchi non poteva che diventare autore di culto per una ristretta ma compatta schiera di estimatori, e difatti anche all’uscita di Dove non ho mai abitato (2017) lo scenario si è ripetuto: rigetto quasi totale e totalitario a fronte di una minoranza entusiasta. Divisivo, Franchi, anche perché anomalo nel suo raccontare, nei modi di un cinema borghese da sempre raro nel nostro paese (che una borghesia forte non l’ha mai avuta e dunque neanche un cinema che la riflettesse), classi agiate e tormentate. Fguriamoci, nel clima del dilagante populismo d’oggi. In Dove non ho mai abitato si parla aristocraticamente di una famiglia intellettuale torinese, il patriarca grande architetto di pessimo carattere, la figlia Francesca anche lei architetto partita per Parigi per sottrarsi al dispotico genitore, lì accasata e mai più tornata in patria. Il grande vecchio intanto ha scelto il suo erede in Manfredi, il figlio che non ha mai avuto, uomo capace e talentuoso in cui rivede se stesso. Un equilibrio esistenziale e professionale retto da un sofisticato quanto precario sistema di pesi e contrappesi che rischia di saltare allorché Francesca decide di tornare a Torino per una visita al padre infragilito dalla vecchiaia. Francesca ha sempre visto il suo talento di architetto conculcato dal genitore. Sarà Manfredi a coinvolgerla a Torino nella ristrutturazione di una villa in collina. Francesca accetterà e da quel momento niente sarà più come prima per nessuno. Cinema elegante, dandistico, ma mai sprezzante né tantomeno glaciale o distaccato. Franchi racconta con educazione quel nucleo familiare e professionale così sotterraneamente divelto e scomposto quanto pacificato e armonico in apparenza, ne sonda le faglie nascoste, ne porta a galla le contraddizioni però senza clamori, senza esplosioni emotive; perché il senso della misura è tutto. Con quella tensione all’equilibrio degli spazi architettonici, alla sapienza compositiva che si fa peculiare visione cinematografica. Son pochi da noi gli antecedenti di un simile cinema, qualche lontanissimo Antonioni, a me viene in mente soprattutto il molto trascurato Fabio Carpi di Quartetto Basileus e Barbablù, Barbablù. Come volete che un paese come il nostro così intimamente plebeo possa apprezzare un film come questo, e difatti. Emmanuelle Devos, attrice di tanto bellissimo cinema francese degli ultimi vent’anni, da Desplechin a Audiard, è Francesca, Fabrizio Gifuni è Manfredi. Ma a prendersi il film è Giulio Brogi quale implacabile, minaccioso capofamiglia, qui nella sua penultima interpretazione. Occhio alla villa in collina in ristrutturazione, mirabile esempio di architettura moderna abitativa. Colonna sonora di Pino Donaggio.
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