La fille au bracelet (La ragazza del braccialetto), un film di Stéphane Demoustier. Con Melissa Guers, Roschdy Zem, Chiara Mastroianni, Anaïs Demoustier. Piazza Grande.
Colpevole o innocente? Lise, 18 anni, è accusata di aver ucciso la (ex) migliore amica che l’aveva infamata mandando in rete un suo pornovideo. Un classico courtroom movie, ma girato con alto senso dello stile e con quella consapevolezza del linguaggio-cinema che è solo dei francesi. Più un racconto morale che un thriller. Ma La ragazza del braccialetto, remake (migliorativo) di un film argentino visto l’anno scorso a Venezia, non riesce a riscattarsi dalla corrività dell’originale. Voto tra il 5 e il 6
Di Stéphane Demoustier, 42 anni, francese di Lille, fratello dell’attrice Anaïs (La villa, Bird People, prossimamente a Venezia con Gloria Mundi di Guédiguian), si era visto qualche anno alla Mostra del cinema Terre Battue. Film assai rigoroso e alieno da ogni cedimento sentimentalista, mica per niente prodotto dai Dardenne, su un complicato intreccio padre-figlio. Chissà perché in questo La fille au bracelet proiettatto in Piazza Grande, quindi ritenuto dai selezionatori più spettacolare e mainstream degli spesso ostici titoli del concorso, ha remakizzato, anche se non piattamente e attuando anzi migliorie sostanziose, il film argentino Acusada. Non proprio un capolavoro, per misteriosi motivi messo l’anno scorso in competizione al Lido (quanta Venezia nelle bio dei fratelli Demoustier) con esito infelicissimo. Va riconosciuto che La ragazza del braccialeto è meglio dell’originale, meno corrivo, meno qualunque, più autoriale (fino dalla notevole sequenza d’apertura: una famiglia in spiaggia ripresa da lontano senza che lo spettatore possa sentire voci e suoni; poliziotti che portano via la figlia adolescente, e lo spettatore a chiedersi il perché), con il regista più interessato a sondare i labirinti psichici e l’opacità morale della giovane protagonista e della sua generazione di appartenenza che all’andamento sinusoidale del thriller con i suoi su e giù e colpi e contraccolpi di scena. Solo che ci si chiede: ma ne valeva la pena? Era proprio il caso di applicare tanta sapienza, tanta consapevolezza, così francese, del mezzo filmico per un racconto che, nonostane tutto, resta di genere e dalla prevedibilità del genere non ce la fa a emanciparsi?
Lise, 18 anni, è in stato di libertà vigilata, indossa una cavigliera per il controllo a distanza (ecco le bracelet del titolo), è in attesa del processo. Dove lei è imputata di omicidio. Omicidio volontario. Avrebbe ucciso, sostiene l’accusa, la (ex) migliore amica: la quale, l’infame, l’aveva ripresa col cellulare mentre praticava un blow job a un compagno di classe e diffuso poi il video in rete. È Lise la maggiore, anzi l’unica indiziata del delitto, per via del movente, e per aver dormito la notte prima del delitto dall’assassinata. Naturalmente credono nella sua innocenza i genitori. Naturalmente argomenta per la sua colpevolezza il pubblico ministero, una grintosa giovane donna assai competente. Da questo punto si entra nel più classico dei courtroom movie, mentre in corso di dibattimento la figura di Lise si fa sempre più ambigua, indecifrabile. Se Acusada finiva se ricordo bene con un clamoroso twist che rovesciava tutto, Demoustier qui riscrive e ristruttura l’ultima parte della narrazione, e di più non si può dire. Il progetto registico evidente è di usare il dispositivo del thriller a rivelazioni progressive per tessere un racconto morale sul nichilismo della nostra contemporaneità, sui nuovi mostri accanto a noi, sulle possibili derive criminali del narcisismo di massa. Demoustier ricorre a una messinscena austera attraverso la quale il processo si trasmuta in rituale e in indagine sulla colpa. Con un che, ma soltante un che, della lezione bressoniana. Grande utilizzo dell’inquadratura fissa frontale-simmetrica, a sottolineare e enfatizzare il processo quale celebrazione laica. Apporto decisivo di due attori ormai tra i più affidabili del cinema francese, il meraviglioso Roschdy Zem (il padre) e Chiara Mastroianni (la madre). Eppure, nonostante il talento e lo stile di Demoustier, la corrività del materiale narrativo di partenza resta e pesa, refrattaria a ogni riscatto.
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