Ad Astra, un film di James Gray. Con Brad Pitt, Ruth Negga, Tommy Lee Jones, Donald Sutherland, Liv Tyler. Al cinema da giovedì 26 settembre 2019.
Male accolto all’ultima mostra di Venezia, soprattutto dalla stampa italiana. Invece in my opinion uno dei vertici del concorso. Sci-fi meditativo e esistenziale sulla scia dell’immenso Solaris di Tarkoksky e dei più recenti Interstellar e High Life. Viaggio edipico verso Nettuno di un uomo in cerca del padre. Ipnotico, ieratico. Una liturgia in forma di odissea nello spazio. Con un grande Brad Pitt. Voto 8
Uno dei film più divisivi della recente Mostra di Venezia, dov’era in concorso e dov’è stato accolto da (ampi) dissensi e (scarsi) consensi. A detestarlo, soprattutto gli italiani. Io invece vado in contotendenza e mi colloco tra i più che favorevoli. Sci-fi meditativo e esistenziale in cui il James Gray di Little Odessa, I padroni della notte e Civiltà perduta si confronta con un progetto ad alto budget, forzando il genere stellare con odissea-nello-spazio fino a squassarlo e piegarlo a sé. Viaggio ai confini del sistema solare, verso Nettuno, che è insieme incursione all’interno di corpo e anima e psiche del suo protagonista Roy, mappatura del suo sistema conscio e inconscio. Pensando a Solaris di Tarkovsky, Interstellar di Nolan, High Life di Claire Denis.
Siamo nel solito futuro vicino in odore di distopia. Roy McBride, di mestiere cosmonauta, viene arruolato in una missione incaricata di indagare su improvvise eruzioni di energia che rischiano di distruggere la terra e le sue colonie spaziali, a partire dalla Luna. Pare che tutto derivi da Nettuno, da quel che resta di una nave spaziale guidata molto tempo prima dal padre di Roy e data per distrutta. Pare non sia così, pare che il genitore sia invece vivo e si sia autoproclamato padrone assoluto di Nettuno. Come il Kurz di Conrad e di Coppola. Stracolmo di citazioni, Ad Astra è al suo primo livello l’itinerario edipico di un figlio in cerca del padre (e sono stati certi critici francesi a notare come la figura del padre, la sua assenza o la sua oppressiva presenza, sia centrale da sempre nel cinema di Gray, da Little Odessa a I padroni della notte). Ma è anche, soprattutto, la sfida lanciata da James Gray al genere sci-fi, al cinema colossale. Che nelle sua mani diventa il dispositivo per un altro cinema, ipnotico, riflessivo, di liturgica solennità, come sincronizzato su un ritmo interiore, altro e e profondo. Quella caduta dalla torre di addestramento seguita dalla cinepresa nel suo vorticare, quel corpo a corpo nello spazio in assenza di gravità, mortale pur nella sua lentezza letargica. Il cosmo come estensione della terra e delle sue crisi e fratture (l’agguato sulla Luna, come in un Afghanistan stellare). Infiniti primi piani di Brad Pitt (formidabile), finché il suo sguardo diventa il nostro, lo assorbe. Ipnosi riuscita, il mago Gray ha vinto. Film destinato, al di là della malmostosità con cui è stato perlopiù accolto fin da Venezia, a crescere nel tempo e assestarsi come un riferimento. Uscito la scorsa settimana negli Usa, ha ottenuto uno score molto buono dai recensori e assai più basso dal pubblico, che non l’ha premiato con gli incassi attesi. Da noi dovrà superare l’ulteriore handicap di una critica poco amica se non esplicitamente ostile. Ma non date retta ai demolitori e non perdetevelo. Seconda strepitosa performance di Brad Pitt di questo 2019 dopo ovviamente C’era una volta… a Hollywood di Tarantino: l’Academy ne tenga conto, please.
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