La verità negata (2016) di Mick Jackson. Rai Movie, ore 23:10, venerdì 24 gennaio 2020.
Uno di quei film contenutistici in cui la forma è, se non inessenziale, certo secondaria e dunque destinati a non piacere alla critica oggi culturalmente egemone (che, si sa, tende a privilegiare il cinema quale gioco di pure forme, cinema come sguardo e visione, disprezzando il contenutismo quale bassa volgarità e pensiero povero). Ma La verità negata – anno 2016 – tratta di qualcosa di troppo importante e cruciale perché lo si liquidi come un film trascurabile. Qui si dibatte, letteralmente (perché il film oscilla tra il legal movie e il courtroom drama), della forma più nota e più abietta di negazionismo, quella che ha per oggetto la Shoah. Lo sceneggiatore David Hare – quanto sia bravo lo sappiamo da anni, vedi The Hours, e lo conferma il bello e sottovalutato Nureyev The White Crow ancora in qualche sala italiana – con tutta la sua professsionalità adatta per il cinema la cause celèbre David Irving contro Deborah Lipstadt. Lui, avvocato britannico, ha dedicato la sua vita a mettere in discussione se non la realtà certo le dimensioni dell’Olocausto. No, non furono sei milioni le vittime, no, non c’è mai stato un disegno genocida nella Germania nazista, no, ad Auschwitz, struttura logisticamente inadeguata, non possono aver ucciso centinaia di migliaia di ebrei d’Europa. E via negando e minimizzando. Una storica americana di radici ebraiche, Deborah Lipstad, ribatte e controbatte, accusa in un libro David Irving di menzogna e manipolazione ideologica. E Irving la denuncia per diffamazione. Sarà scontro in tribunale, a Londra. David Hare allo script e Mick Jackson alla regia ricostruiscono fedelmente i fatti, ponendoci di fronte alla questione non solo del negazionismo della Shoah, ma al dilagare, oggi, del negazionismo di verità acclarate come nuovo oppio dei popoli, forma collettiiva di allcinazione e autoinganno. Rachel Weisz è Deborah Lipstad ed è al solito meravigliosa. Ma il film è Timothy Spall, inquietante, maligno, diabolicamente soggiogante quale David Irving. Costringendoci ancora un volta a interrogarci, più che sulla banalità del male, sulla sua capacità di affascinare e ottundere anche le menti più razionali.
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