Judy, un film di Rupert Goold. Con Renée Zellweger, Darci Shaw, Rufus Sewell, Michael Gambon.
Sarà Oscar per Renée Zellweger? Tra poche ore sapremo. Di sicuro se lo merita per come fa rivivere, voce compresa, una delle figure che hanno fatto letteralmente la leggenda di Hollywood: Judy Garland. Di cui questo film racconta gli anni terminali, in una sorta di calvario laico. Tutto corretto e diligente, ma prevedibile. E però Zellweger enorme, in una di quelle titaniche performance mimetiche alla Favino-Craxi o Streep-Thatcher. Voto al film 6. Voto a Renée Zellweger 8 e mezzo.
Ma Zellweger se lo merita l’Oscar che sicuramente vincerà? (al momento in cui scrivo gli orologi segnano le ore 17:55 di sabato 8 febbraio: mancano 30 ore all’assegnazione degli Academy Awards; al momento in cui posto, sono le 20 di domenica 9 febbraio, di ore ormai ne manca solo una manciata). Certo che sì, e non date ascolto a quelli che “però esagera in mossette e faccine e birignao” e invocano chissà perché la massima economia espressiva e un raggelato stile kabuki quando poi cadono in deliquio di fronte alle guittaggini benché d’alta scuola e sommo mestiere di un DeNiro o Al Pacino. Ma signori miei e signore mie, qui si tratta di riesumare e ridare vita (anche se fatta solo di ombre schermiche) a un fantasma della meglio Hollywood che fu, una di quelle presenze in celluloide che han fatto la storia, e mica si sta esagerando. Un fantasma che ha occupato e colonizzato gli immaginari di innumerevoli devoti e continua a occuparli. Intendo, Judy Garland. Che Renée Zellweger rievoca quasi medianicamente, incorporandone spirito e soma, tic e posture. In una performance impressionante della famiglia Favino-Craxi e Meryl Streep-Thatcher, dove fatichi a distinguere l’originale dal clone e dove la copia è tanto convincente da assestarsi agli occhi di chi l’originale non l’ha mai conosciuto come essa stessa l’immagine del vero. Zellweger è Garland, ne riproduce gli sguardi obliqui e cautelosi e impauriti, la fragile figura, l’incerto atteggiarsi, canta perfino benissimo e senza farsi doppiare le canzoni di una delle grandi voci del Novecento. Ci voleva un’interpretazione più interiorizzata, sobria, composta, signorile, come molti han detto e scritto? Andiamo, qui si tratta di confrontarsi con un’immensa icona popolare e riportarla in vita, non di un ieratico oratorio messo in scena da un qualche regista-guru della Nuova Inespressività. Zellweger è patetica, commovente, straziante al punto giusto, esattamente come certe drag queen che devotamente trans-mutano e trans-figurano se stesse e il proprio corpo per adeguarlo a quello del modello femminile adorato e vagheggiato (e tra i modelli un posto per Garland c’è sempre, si sa). Non si tratta di copiare o duplicare, ma di rivivere come in una sacra rapresentazione di adoranti e flagellanti i tormenti e le estasi del santo (della santa) e martire di riferimento. Zellweger ripercorre tutte le stazioni del Golgota judygarlandiano, giacché della cantante-attrice ed ex fanciulla prodigio di Il mago di Oz questo film riprende gli ultimi anni, la fase terminale e la più dolorosa e devastante (per lei, per noi spettatori), quando la diva caduta e decaduta si avvvia verso il supremo sacrificio di Sé. Con il dolore che si fa spettacolo nonché ostensione e offerta del proprio corpo spossato e della propria anima lacerata al pubblico genuflesso e insieme cannibale-voyeur.
Zellweger dopo gli interventi estetici degli ultimi anni (ma perché?) non assomiglia più a sé stessa, niente è rimasto della sua faccia paffuta e rosea che la fece perfetta Bridget Jones, e però assomiglia moltissimo al personaggio-mito con cui si è misurata in questo Judy. Come se, attraverso quegli interventi, avesse oscuramente (inconsciamente) voluto dimetters da sé stessa e da quanto era stata professionalmente fino a quel momento per assumere l’identità di Judy Garland. In una strepitosa impresa immersiva che va oltre ogni possibile Metodo strasberghiano adattando il proprio sembiante al modello, come in una performance mutante di Orlan. E non volete darle l’Oscar?
Questo film è Zellweger. E senza Zellweger non sarebbe. Si tratta di accompagnare Garland al suo Calvario e la sceneggiatura, tratta mi pare da un testo teatrale, lo fa con diligente fedeltà ai fatti (o meglio alla leggenda che da quei fatti si è originata). Quando la vediamo a inizio film – siamo nella seconda metà degli anni Sessanta – l’attrice-cantante di Il pirata e È nata una stella è una has-been che tra furori e patetismi sopravvive al proprio mito esibendosi in locali non di eccelsa fama per, letteralmente, un pugno di dollari. Con lei i due figli minori – la maggiore, Liza, avuto da Vincente Minnelli, è già grande e in carriera – che sballotta e trascina nelle sue disavventure finanzarie e artistiche (e che talvolta porta con sé sulla scena), ma che, da possessiva e viscerale mamma tigre, non vorrebbe mai perdere: mentre il marito e i tribunali naturalmente fan di tutto per portarglieli via. Arriva da Londra l’offerta per uno show di lunga tenitura in un teatro importante: Londra, dove ancora il suo mito è attrattivo, dove il pubblico è ancora disposto a rispondere entusiasta al richiamo della sua voce, sicché non le resta che accettare e partire. Sarà un rollercoaster di trionfi e disastri, tra crisi alcoliche, annebbiamenti della mente e ogni possibile dipendenza da ogni possibile pillola, con nuovi amori che si riveleranno pericolosi e distruttivi. Ma la delusione massima le verrà dai figli che non intendono più stare con lei e raggiungerla in Inghilterra. Succederà quell’atto finale che storia e cronaca ci hanno restituito più volte (leggenda omosessuale vuole che, in quel giorno del 1969, la morte di Judy prostrò e esasperò a tal punto la comunità gay newyorkese, che ovviamente la adorava, da indurla a reagire alle ennesime provocazioni della polizia con la rivolta; e fu Stonewall, storico inizio del movimento gay. Ma di questo il film non parla). Judy si attiene rigorosamente all’ortodossia del culto garlandiano, senza tentarne la minima riscrittura e reinterpretazione. Il che rende il film del tutto prevedibile. Ma è anche grazie a questa convenzionalità da repertorio dei Santi e Martiri (ovviamente non mancano i flashback con lei ragazzina sul set del Mago di Oz costretta a ingurgitare pillole per non ingrassare e non deludere i produttori-predatori crudeli e lascivi: a dirci signora mia che “è tutta colpa di Hollywood!”) che Renée Zellweger può costruire la sua performance. Certo restano fuori ampie zone inesplorate che avrebbero potuto restituirci una Garland meno bidimensionale, con più profondità e sfumature. Per esempio: questo film di Rupert Goold, come già la miniserie televisiva ABC del 1998 Me and My Shadows: A Family Memoir che trattava un arco più ampio della vita e carriera di Judy, non parla dei generosi tentativi di Garland negli anni Sessanta di provarci con un altro cinema più autoriale e indipendente, meno ortodosso e hollywoodiano. Il primo con Vincitori e vinti di Stanley Kramer dove fornì una memorabile interpretazione (certificata da una nomination all’Oscar come best supporting actress), il secondo addirittura per la regia di John Cassavetes nel travagliatissimo Gli esclusi. La prossima volta, oltre che le tante crisi alcoliche e da pillole di ogni tipo e colore, vogliamo anche rievocare quest’altro pezzo nella vita di Judy Garland?
CERCA UN FILM
ISCRIVITI AI POST VIA MAIL
-
-
ARTICOLI RECENTI
- 11 FILM stasera in tv – lun. 6 nov. 2023
- Film stasera in tv: LE CHIAVI DEL PARADISO di John M. Stahl – lun. 6 nov. 2023
- Film-capolavoro stasera in tv: IL SORPASSO di Dino Risi – lun. 6 nov. 2023
- 19 FILM stasera in tv – dom. 5 nov. 2023
- Film stasera in tv: NYMPHOMANIAC VOLUME 2 di Lars Von Trier – dom. 5 nov. 2023
Iscriviti al blog tramite email