Berlinale 2020 (giorno 1). Recensione: SWIMMING OUT TILL THE SEA TURNS BLUE di Jia Zhangke

Yi Zhi You Dao Hai Shui Bian Lan (Swimming Out Till The Sea Turns Blue), docufilm di Jia Zhangke. Berlinale Special.
Il gran regista di A Touch of Sin e I figli del Fiume giallo è alla Berlinale con un documentario. Dove attraverso storie vere verissime della sua piccola patria, la provincia di Shanxi, riaffronta  il suo tema feticcio, fors’anche la sua ossessione: il passaggio della Cina dal maoismo all’arricchitevi! di oggi. Con il solito senso mirabile del racconto e del paesaggio. Voto 7 e mezzo
Eccomi la mattina dopo a scrivere dei film del primo giorno, giovedì 20, almeno di quelli che ho visto (quattro: tutti in press sceening). La Berlinale 70 dei cambiamenti – nuovo direttore artistico, una sezione in più, Encounters, ritocchi cospicui nella mappa di luoghi e sale –  ha offerto ai press-accreditati come inizio un docu di quasi due ore assai autoriale, da festivàl, visto che a firmarlo è il venerato maestro cinese Jia Zhangke, più di una palma sfiorata a Cannes e mai conseguita, un Leone giovanile a Venezia, culto cinefilo globale consolidato. Jia Zhangke che qui, attraverso storie vere verissime ri-racconta quello che da molti anniè il suo tema d’elezione, la sua ossessione, ovverosssia i cambiamenti del gran paese asiatico dal maoismo al post-maoismo dell’economia di mercato (apparantemente) liberalizzata e infiammata dagli animal spirits imprenditoriali. Dagli egualitarismo imposti per ideologia e repressione di regime all’arricchitevi, ma sempre sotto sorveglianza dei comitati centrali e del presidentissimo di turno. Un panorama in cui è cambiato tutto ma non l’illibertà diffusa, la vita sotto controllo. Nei suoi ultimi film Jia Zhange non ma ha mai nascosto un certo sguardo benevolente se non proprio nostalgico per la lunga fase comunista quando tutti lavoravano, magari duramente e in cambio di poco, ma lavoraravano, e l’istruzione e i bisogni di base erano assicurati. Poi signora mia è intervenuto il rapace capitalismo che tutto sfrutta e che ha deragliato e corrotto uomini donne e destini buttandone molti sulla cattiva strada del crimine e dell’avidità (vedi i suoio ultimi Un tocco di peccato, Al di là delle montagne, I figli del Fiume giallo). Poi gli si perdona molto, a Jia, per via della forza del suo cinema e per la sua non dubitabile statura di storyteller (come indubitabili è la sua indipendenza da ogni politica culurale di regime). Il si-stava-meglio-quando-si-stava-peggio? (punto di fomanda obbligatorio) serpeggia anche in questo documentario dal belissimo titolo il cui senso si chiarirà nell’ultima inquadratura (i titoli di Jia son sempre bellissimi e molto evocativo-narativi), e serpeggia soprattutto nella prima parte quando con la macchina da presa scruta i volti magnifici i vecchi in un ospizio, facce ehe sono la cartografia ancora vivente delle molte stagioni e trasformazioni della Cina moderno-contemporanea. Ecco evocazioni e rievocazioni di quando Mao prese il potere, di quando la terra salina e riarsa della provincia di Shanxi (dov’è nato e cresciuto Jia, e che il campo di indagine e di racconto di tutto il docu) cominciò a fruttificare meravigliosamente grazie ai contadini non più soli e divisi e abbandonati a se stessi ma oganizzati dal partito in squadre efficienti. Affreschi e posteroni con scene da realismo cinocomunista, gruppi scultorei di fieri lavoratorio e lavoratrici. Brillio del sol dell’avvenire, ma va detto che, al di là dell’ideologia, le storie son spesso meravigliose, anche di emacipazione dalla miseria estremissima e dall’ignoranza, itinerari di crescta e aiutorealizzazione attraverso la cultura, lo studio. Jia Zhangke approfitta di una reunion di scrittori della zona,  la sua piccola patria, per farsi dire da loro o dai loro figli, parenti, amici la loro storia che si fa man mano, nell’intreccio con le altre, storia di un paese. Compresa quella di un signore oggi rispettato autore di libri che molto soffrì ai tempi della rivoluzione culturale quando a suo padre stroncarono vita e carriera e a lui impedirono gli studi. Poi faticosamente recuperati, dopo essere passato attraverso lavori di bassa forza – asfalktare strade – e altri più curiosi – tracciare sulle montagne le scritte di propaganda e incitazioni alle masse. Il che blancia, con il rammemorare i disastri della banda dei quattro, la nostalgia, peraltro di indubitabile sincerità, della prima parte. Jia qua e là si fida un po’ troppo dei suoi ospiti scrittori-narratori, non tutto e sempre è di massimo interesse, ma il suo occhio non sbaglia mai. Nella scelta dei volti-paesaggio, dei paesaggi veri, specie quelli fluviali. Si sente quanto ia radicato nel suo mondo e gli sia devoto. Si conferma la sua abilità di raccontatore di storie, la sua capacità di avvincerci. E quanto si impara da questo film della Cina più profonda.
Nota: Jia Zhangke non lo si è visto, forse è qui ma non si èpalesato. Ma in sala stampa e al cinema i cinesi, agazzi e ragazze, son frotte. Di fronte na me adesso ella press lounge due ragazzine sì e no ventenni con la solita aggressività dei cinesi sfogliano Variety e ScreenWeek strappando le pagine che a loro interessano (di solito quelle in cui si parla di film cinesi: il loro orizzonte resta sembra patriottico-mazionalista), si soffiano il naso e buttano sul tavolo i fazzoletti. Però c’hanno la borraccia antiplastica e salvapianeta d’obbligo alla Berlinale, senza la quale non ti danno né caffe né acqua.

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