S’era capito subito a Venezia, già durante il press screening e ben prima che gli venisse assegnato un annunciatissimo Leone, che Nomadland sarebbe diventato il favorito per l’Oscar. Pronostico facile. Difatti, tre gli Academy Award vinti nella notte tra il 25 e il 26 aprile, tutti pesantissimi: film, regia, attrice protagonista. Oscar che si sono aggiunti, oltre che al Leone veneziano, a due Golden Globe (film, regia) e a una quantità abbastanza impressionante di altri premi sparsi qua e là nell’anglosfera. Adesso che Nomadland è arrivato nei nostri cinema ripropongo la recensione scritta dopo la proiezione stampa a Venezia 2020.Nomadland di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie.
Arrivato al Lido come il superfavorito, preceduto da una micidiale grancassa promozionale, Nomadland di Chloé Zhao si è portato via come ampiamente annunciato il Leone. Film degnissimo, intendiamoci, ma ha irritato tutti la prevedibilità, quasi l’inevitabilità, del premio. Attraverso la storia di una donna che abbandona la sua hometown per mettersi sulla strada con un van, Nomadland ci fa conoscere il popolo invisibile delle case viaggianti. Buono, a tratti molto, ma da Leone? Voto 7

Chloé Zhao sul set
Doveva essere Leone e così è stato. Tutto già scritto. L’hype intorno a Nomadland era cominciato in America su carta e web almeno due mesi fa e si è man mano ingigantito, fino all’inclusione assai pubblicizzata del film nella line-up di ben quattro festival d’autunno, da Venezia a Telluride, Toronto, New York (e spiace che Venezia abbia rinunciato all’esclusiva, pur in circostanze eccezionali come l’era Covid). Una poderosa strategia di marketing messa in atto come solo negli Usa. Se ricordo bene lo stesso Alberto Barbera nella conferenza stampa di presentazione del programma lo aveva salutato come un sicuro film da Oscar (se non sono le esatte parole, questo almeno il senso). Aggiungeteci alla regia un’autrice amatissima, negli Usa soprattutto, la Chloé Zhao di quel The Rider malinconco “western moderno” vincitore tre anni fa della Quinzaine fa Cannes e subito issato dai critici anglofoni nell’empireo dei meglio film della decade. Aggiungeteci la presenza di un’attrice rispettata e già carica di Oscar (due: per Fargo e Tre manifesti a Ebbing), oltretutto legata a Venezia che con la prima mondiale di Tre manifesti l’aveva proiettata verso l’Academy Award, intendo Frances McDormand, anche coproduttrice di questo film di Chloé Zhao. Il risultato: approdo al Lido con l’aura del capolavoro e già l’allora del sicuro vincitore. Così è stato, ed è questa prevedibilità percepita come inevitabilità se non addirittura come un piano architettato in chissà quali segrete stanze (i complottisti si stanno scatenando) ad avere irritato dopo l’annuncio del Leone tanta parte della critica giovane, meno giovane, di carta, di web. Ed erano tali le aspettative create dalla macchina promozionale che poi alla visione il film ha inevitabilmente deluso.
La nicchia ecologica in cui si è originato il progetto di Nomadland resta il cinema indie americano, in queso caso indie sì, ma di budget non così minuscolo. Un progetto, il film di Chloé Zhao, comunque disposto a scendere a patti con il mainstream adottando una narrazione lineare e una forma-cinema, come dice il mio amico Luca P., priva di ogni asperità. Il tipo di indie movie però non così avventuroso cui i critici angloamericani assegnano il mssimo dei voti, che incamerano premi dappertutto, a festival maggiori e minori, per arrivare poi in febbraio al fondamentale appuntamento con gli Oscar. Si pensi, tanto per esemplificare con un titolo degi ultimi anni, a Green Book.
Nomadland, per quanto bello e nobile, per quanto onesto, non ce la fa a scostarsi da quel modello, resta pur sempre il frutto di quella macchina produttiva e promozionale, ne porta il marchio, mentre da un Leone veneziano oggi si vorrebbe altro. L’audacia nel linguaggio, la ricerca, l’esplorazione di un cinema futuro, la presa in carico di un rischio, di una scommessa. Anche, ingenuamente, un cinema più puro. Invece, ancora una volta, come nelle precedenti edizioni dove hanno prevalso Joker, Roma, La forma dell’acqua, la giuria ha scelto un film dignitosissimo ma senza azzardi, pronto a volare alla Notte dell’Academy. Non ho niente contro il cinema bien fait, pulito, sensibile come questo, in grado di mettere d’accordo, e raramente succede, stampa, addetti ai lavori, pubblico. Cinema di cui abbiamo bisogno, che deve andare anche in sala e non solo in streaming. Credo però che la stagione veneziana, che è anche una stagione legata alla linea editoriale impressa da Alberto Barbera, di concedere spazio a ottimi film americani di forte richiamo lasciando in penombra certo altro cinema, sia arrivata alla sua maturazione. La sacra alleanza italoamericana ha fatto bene a entrambe le parti, ha trasformato Venezia in piattaforma di lancio per la award season, aspetto molto apprezzato dagli amricani, ha richiamato folle di critici da ogn parte del mondo come non succedeva più (l’anno scorso numeri record): consolidando lo status di Venezia subito dopo l’irraggiungibile Cannes (con il cui delegato generale Thierry Frémaux peraltro Barbera intrattiene rapporti più che cordiali). Adesso però, please, basta con il patto d’acciaio Venezia-Hollywood, usciamone, spalanchiamo finestre su cinematografie meno potenti e meno inflazionate, missione cui il festival certo adempie già in sede di selezione, meno quando si tratta di assegnare il Leone d’oro. Mentre Nomadland, che pure è degno film (un capolavoro no), issato sul gradino più alto del podio finisce col sembrarci la pigra conferma di una routine da ridiscutere.
La storia: la cinquanta-sessantenne Fern, dopo la morte dell’amato Bo, dopo aver perso il lavoro, lascia la sua hometown, Empire, Nevada, per percorrere l’America con un van (nome: Vanguard). Sarà attraverso di lei che conosceremo la popolazione nomade in viaggio sulle case mobili. Popolo sommerso, invisibile, una sottocultura con i suoi punti di ritrovo, la propria mappa di ristoranti, camping, parcheggi, rifugi, strutture cui chiedere aiuto in caso di bisogno, i suoi guru di riferimento prodighi di consigli. E luoghi di lavoro in cui fermarsi a ricaricare le esauste finanze, per poi rimettersi sulla strada. Come i vari magazzini Amazon sparsi dappertutto, dove anche Fern trova più di una volta lavoro. Amazon, che ha concesso di girare nella sue mastodontiche strutture e di usare il suo logo: un product placement astuto e pure funzionale alla storia. Certo, se vi aspettate in Nomadland un’accusa di sfruttamento intensivo del lavoro da parte della supercompany di Jeff Bezos non la troverete. Amazon anzi ne emerge come un luogo accogliente e soccorrevole, sempre disposto ad assumere gente di Nomadland in difficoltà anche parecchio anziana.
Trapela da tutto il film un senso di vero, la capacità di Chloé Zhao di stabilire la giusta misura e distanza rispetto ai suoi personaggi, il tocco rispettoso verso un mondo nel quale non mancano gli eccentrici e i drop-out. Osservazione e curiosità senza cadere mai nel voyeurismo del diverso, peccato mortale anche di tanto cinema d’impegno e denuncia. Il documentarismo si affianca con naturalezza alla narratività della storia di Fern, compaiono al fianco di attori professionisti autentici nomadi su van che interpretano sé stessi, come Linda May e Swankie. A colpirci è che sono molte le donne, molti gli e le ultrassesantenni soli che hanno deciso di troncare ogni legame di famiglia. Non si tratta sempre di emarginati sociali, di diseredati, buttati sulla strada dalla perdita del lavoro, dalla povertà, dalle dipendenze da droghe e alcol. Certo, ci sono anche loro, ma molti il nomadismo lo hanno scelto, voluto, perseguito. Per rifiuto della stanzialità, per la ricerca o illusione di una libertà assoluta, senza confini. Tutto molto americano. Nomadland – è il suo lato migliore – esplora come pochi altri film l’anima americana, la sua irrequietezza, il richiamo mai spento della corsa verso Ovest, verso la Frontiera. Oggi la si fa in van e sempre in van ci si immerge nella natura, nei deserti, in paesaggi immensi, seguendo ancora una volta l’invito di Thoreau a perdersi nella wilderness. Nomadland è quanto di meglio ci abbia dato il cinema degli ultimi anni sull’essenza americana, e che a farlo sia un’autrice nata nel 1982 a Pechino è straordinario e carico di significati e risonanze. Pur mantenendo una costante bassa, pudica temperatura emotiva Chloé Zhao non ce la fa a evitare qualche psicologismo di troppo, anche per lo spazio dato alla protagonista rispetto all’affresco collettivo. Fances McDormand è al solito bravissima, non si potrebbe immaginare un’altra attrice al posto suo come Fern, ma accentra troppo su di sé lo sguardo dello spettatore e dell’autrice. Le sue storie private, il ritorno nella sua Empire, la sosta nella famiglia del brav’uomo incontrato on the road che la vorrebbe con sé in una casa vera, rischiano di pateticizzare un film che fino quel momeno era rimasto in miracoloso equilibrio tra osservazione e partecipazione. Si esce dalla sala a ciglio asciutto, ma inevitabilmente commossi. Poi resto dell’idea che sarebbe stato meglio assegnargli un premio anche importante – regia, premio speciale della giuria – non il Leone. Sarà il tempo a stabilire lo status di Nomadland, se successo di una stagione o punto fermo nella cinematografia di questi anni (direi intanto la prima).