Spencer, un film di Pablo Larrain. Con Kristen Stewart, Timothy Spall, Sally Hawkins. Concorso. Voto 7 e mezzo
Ancora? Ancora un film su Diana? Non bastano i precedenti, peraltro mediocri (ricordo quello, terribile, con Naomi Watts) e l’ultima stagione di The Crown che hanno indagato tutto l’indagabile, rappresentato tutto il rappresentabile su vita e morte di Lady D.? Forse Pablo Larrain non aggiunge niente di nuovo, certo è che che per potenza e ricerca formale surclassa quanto prodotto finora. Devo dire che la pomposa epigrafe posta a inizio film, “Una favola nata da una vera tragedia”, qualunque cosa voglia dire, non bendispone, anzi indispone per pretenziosità e sentenziosità (cose un po’ alla Sorrentino, ecco). Ma non si ha il tempo di provare fastidio che subito si viene conquistata dalla sequenza del convoglio militare che procede spedito e si suppone armato verso un castello nel countryside (scopriremo che si tratta di Sandringham House, residenza di campagna della famiglia reale), salvo poi renderci colto che il trasporto non è di armi di offesa o difesa ma di cibarie. Scorte per la cucina – aragoste, dolci sontuosi, ecc. – per colazioni-pranzi-cene, soprattutto cene, dei giorni di Natale di Elisabetta, parenti, qualche cortigiano. Un inizio assai larrainiano, introduzione ai rapporti di forza e potere che vedremo di lì a poco, altro che le ovvietà piattaformesche, benché benissimo scritte dal Peter Morgan, di The Crown. Un pezzo di bravura per dire: qui non siamo nella serialità, questo è cinema con uno stile, una visione peculiari. Pablo Larrain lavora sulla sua protagonista (una Kristen Stewart che si fa subito amare), sullo spazio e sulla relazione tra una e l’altro. Diana non esiste se non all’interno di uno perimetro chiuso, blindato, di un castello-prigione metafora delle sbarre più ampie in cui è costretta a (non) vivere e negare il suo vero sé. La ripresa dall’alto mediante drone (per una volta utilizzato secondo un’intenzione estetica e drammaturgica) del palazzo di Sandringham, in una sorta di astrazione cartografica, è una dichiarazione programmatica della messinscena che sarà. In Spencer si gioca una partita, il castello è la scacchiera, il territorio dello scontro. Tutto è delimitato, recintato, geometricamente definito. Anche quando Spencer va in esterni, nel parco, nella campagna intorno, Larrain ci fa sentire in trappola, come la sua protagonista (il filo spinato, le guardie). Un film claustrofobico dove Diana cerca, con l’agitarsi disperato di un insetto chiuso in bottiglia, letteralmente di respirare, di rompere catene e barriere, illudendosi di potercela fare. E nell’ennsimo gesto di ribellione apre le finestre, bloccate con cuciture alle tende per impedire – spiega il responsabile della sicurezza, in realtà un carceriere distaccato alla sorveglianza della principessa incontrollabile e sull’orlo della follia (è un minaccioso Timothy Spall) – che i fotografi in agguato là fuori la colgano in pose sconvenienti.
Spencer ripropone di Lady D. la versione degli ancora molti supporter e devoti di lei, il racconto della principessa del popolo che cercò di opporsi alle regole inflessibili di casa Windsor e ne fu ostracizzata. Versione opposta ma perfettamente speculare a quella di chi è sempre stato dalla parte della Regina, accusando Diana di insipienza e inadeguatezza rispetto al ruolo. Ma Larrain ha l’abilità di reimmaginare i fatti riuscendo a trasformare la cronaca in mito e Diana in figura archetipica, eterna, ad alta densità simbolica. Lo fa incrociando almeno due schemi narrativi universalmente diffusi, in tutti i tempi e in tutte le culture. Il primo: quello della Principessa prigioniera, il secondo: quello della giovane sposa deportata dopo il matrimonio in una casa-prigione abitata da presenze oscure e minacciose. Rebecca la prima moglie, ecco.
Vediamo Diana a dieci anni dal matrimonio, ormai in piena crisi con Carlo di cui ha scoperto la relazione con Camilla, con i due figli adorati ancora infanti ma già in grado di vedere e valutare. E la vediamo durante la breve vacanza di Natale della Royal Family a Sandringham. Arriva da sola, senza autista, si perde nella campagna, dovrà subito giustificarsi per il ritardo. La sua camera è la sua cella. Obbbligata a adeguarsi senza discutere alla rigida etichetta: perfino gli abiti le vengono imposti. Sta male, manifesta chiari segni di instabilità, si sente paranoicamente perseguitata (con una qualche giustificazione, va detto), ha visioni e allucinazioni. E si identifica in Anna Bolena, la giovane moglie tradita e fatta decapitare da Enrico VIII, mentre in questa proiezione sul pasato la rivale Camilla diventa Jane Seymour. Un’interpretazione decisa, questa della pazzia di Diana, che non piacerà ai suoi devoti, ma che consente a Larrain di lavorare sulla doppia lingua del realistico e dell’allucinatorio, scagliandoci in una discesa agli inferi mentale che ricorda certi classici del cinema psycho-horror come Repulsion di Polanski e Images di Altman (curiosamente fa lo stesso Edgar Wright nella parte centrale, di gran lunga la più interessante, del suo Last Night in Soho, dato qualche giorno fa fuori concorso). Chiaro che il climax lo si raggiunge nei confronti diretti tra Diana e la famiglia reale ingessata nei suoi rituali (quelle cene orribili, quella batture di caccia obbligatorie anche per il riluttante giovane William), e allora come si fa a non stare dalla parte di lei? Certo, le monarchie si reggono sul rituale, sulla conservazione ossessiva del passato, sulla ripetizione di quello che è sempre stato. Ma questi Windsor di campagna con gli stivaloni, le mute di cani, l’odio o l’indifferenza per ogni finezza estetica, per ogni bellezza, sono davvero insostenibili. Spencer non è piaciuto granché, né ai critici né al pubblico, qualcuno ne ha parlato come della grande delusione di Venezia 78. Dissento. Questo è puro Larrain, urticante, utilmente sgradevole.
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