Il capitano Volkonogov è scappato (Captain Volkonogov Escaped – Kapitan Volkonogov Bezhal) di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov. Con Yuriy Borisov, Timofey Tribuntsev, Aleksandr Yatsenko, Nikita Kukushkin. Concorso. Voto 8
Più passano i giorni, più questo film si conficca nella mia mente e non se ne va via. Non riesco a dimenticarlo, si sovrappone di continuo nella memoria a tutti gli altri (sono cinquanta) che ho visto a Venezia. Cos’abbia smosso in me non saprei e però se il valore di un film va stimato anche dalla sua permanenza, dalla capacità di resistere alla meccanica dell’erosione, della dimenticanza, della cancellazione, allora Il capitano Volkonogov è fuggito – preferisco questo titolo, per assonanze bressoniane, a Il capitano Volkonogov è scappato delle schede ufficiali – è, definitivamente, il mio film del Festival. Non deve aver fatto lo stesso effetto sui giurati né sulla gran parte degli accreditati stampa italiani, i primi l’hanno completamente ignorato (ma al posto del bigino di ordinaria psicologia The Power of the Dog no?), i secondi l’hanno steso relegandolo perlopiù negi ultimi posti delle loro classifiche. Più indulgenti gli straniere in laguna-Lido, che hanno apprezzato questo film russo fuori media e fuori schema, di ardua classificazione, che interviene sui modi codificati del cinema di denuncia – qua si parla del tempo più buio dello stalinismo, quello delle purghe e dei massacri di massa, anno 1938 – per minarli dal di dentro, ibridandoli con il cinema di genere – in questo caso dell’action, sottogenere ‘uomo in fuga’. E immettendovi, ed è il lato più sorprendente, una visione spiritualista e religiosa certo profondo-russa ma del tutto estranea all’universo rappresentato, quello del comunismo sovietico nella fase più feroce. Alla coppia registica Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, che già aveva portato a Venezia 2018 nella sezione Orizzonti l’assai interessante The Man Who Suprised Everyone, riesce là dove ha fallito Freaks Out: ri-raccontare, ri-costruire le tragedie della Storia (maiuscola!) esondando dalle consuetudini ingessate del cinema politico per inoltrarsi su strade meno battute, pur mantenendo intatta la pietas, la vicinanza agli ultimi, alle vittime. “Parabola postmoderna con elementi del thriller mistico, una favola nera su un carnefice che all’improvviso scopre di avere un’anima”, definiscono il proprio lavoro i due autori, mentre qualcuno della stampa presente a Venezia ha parlato secondo di distopia. Forse perché nella gran quantità di film sul futuro prossimo venturo riveraata da anni ormai sugli schermi, il quadro è sempre quello di società totalitari, dove la violenza è endemica, dove il controllo delle vite da parte degli apparati polizieschi è capillare. Ma, signori miei, le purghe staliniane degli anni Trenta che fanno da sgondo e involucro alla vicenda del capitano Volkonogov non sono un proiezione immaginaria, sono un passato storico terribilmente fattuale, irriducibile alla dimensione del fantastico.
Siamo a Leningrado, nell’anno 1938. Fyodor Volkonogov, nonostante la giovane età, ha già fatto carriera nei ranghi della polizia segreta, nel corpo di agenti adibiti alla sicurezza nazionale. Che vuol dire: arrestare i presunti nemici dello Stato, i presunti traditori, i presunti agenti di potenze straniere. Arrestarli, interrogarli, torturarli, estorcere false confessioni, ucciderli. Lui, Fyodor è convinto di essere al servizio del Bene, ma quando la macchina paranoica messa in piedi da Stalin – chiunque può essere un nemico, tutti vanno sospettati e tenuti sotto controllo, e nel dubbio: uccidere – comincia a divorare i suoi stessi zelanti esecutori, le certezze in lui vacillano. Assiste al suicidio di un collega, si rende conto di essere diventato un testimone pericoloso, vede che i suoi stessi amici vengono sottoposti a interrogatori per poi scomparire. Scappa. Capiremo più tardi che lo scopo non è di mettersi in salvo, fuggire altrove: sa bene di non avere scampo. L’obiettivo del capitano Volkonogov è altro, rintracciare i parenti delle vittime che lui ha contribuito a eliminare e chiedere perdono. Idea straordinaria, che scaglia il film in una dimensione di colpa e espiazione davvero dostojevskiana (ah, i russi). E sarà stato questo parlare di anima ad avere infastidito qualche critico? (e però entusiasta quando a trattare di espiazione è il Paul Schrader di The Card Counter).
Inseguito da un militare specializzato in caccia all’uomo, malato di tubercolosi (una figura a modo suo grandiosa, difficile da dimenticare), Fyodor attraversa tutte le stazioni del suo calvario sperando nell’assoluzione. Incontrerà molti dei parenti delle sue vittime, il che nerrativamente consente ai due autori di mostrarci le infinite facce dell’abiezione staliniana, i ricatti, le manipolazioni, la trasformazione di un popolo intero in una massa di potenziali informatori del regime. Un quadro devastante, senza sconti (e tutti a chiederci: cosa ci dirà mai della Russia putiniana di oggi un film così critico verso la storia sovietica? Che il potere attuale è deciso a fare i conti con il passato oppure, al contrario, che il lavoro di Merkulova e Chupov va configurato come fronda, dissenso, opposizione?).
Figurativamente smagliante, Il capitano Volkonogov è fuggito ci presenta una Leningrado di palazzi prerivoluzione ora quartieri generali dei più sinistri apparati di repressione, di appartamenti aristocratici ridotti a komunalke, spazi condivisi da famiglie ammassate una sull’altra. Natasha Merkulova e Aleksey Chupov si lasciano sedurre dai rituali militari, dalla fratellanza viril-cameratesca che unisce Fyodor ai suoi compagni, dai corpi palestrati e addestrati: memorabile la sequenza dei canti e delle coreografie del coro dell’Armata rossa, con la sua celebrazione feticistica della divisa (gli stivali, i berretti, quei calzoni clamorosamente rossi). Tant’è che la mia amica S., cui il film non è piaciuto, parla di estetica fascista (quache settimana fa sui social si era detto lo stesso a proposito di DAU. Natasha, l’unico capitolo uscito finora in sala dello smisurato progetto DAU firmato Ilya Khrzhanovskiy). Un’estetica, anche, delle teste rasate e del muscolo che tanta circolazione ha avuto nelle bande criminali della Russia post-sovietica. Ma basta questo per tacciare di ambiguità Il capitano Volkonogov è fuggito? Che non ha mai il benché minimo cedimento verso l’orrore, la minima condiscendenza. L’agghiacciante sequenza della lezione del boia Proiettile su come uccidere con un solo colpo alla nuca i condannati senza sprecare pallottole, spazza via ogni dubbio al riguardo. Questo è un film importante ed è un peccato che la giuria non se ne sia accorto (come non si è accorta dell’ucraino Reflection: dall’ex Urss è venuto il meglio cinema del concorso). E poi c’è Yuri Barisov. Che attore, la rabbia del giovane Marlon Brando, lo stesso magnetismo. A Cannes era in due film, ed era sensazionale soprattuto nel finlandese Compartment No 6, a Venezia lo si è visto qui e in un film di Orizzonti, Mama, I’m Home. Ne risentiremo parlare. Il capitano Volkonogov è fuggito è in programma a Milano a Le vie del cinema (a partire dal 22 settembre), non so se anche nell’analoga rassegna a Roma. Se potete, non perdetevelo.
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