Il buco di Michelangelo Frammartino. Con Paolo Cossi, Jacopo Elia, Denise Trombin, Nicola Lanza, Antonio Lanza, Leonardo Larocca, Claudia Candusso, Mila Costi, Carlos Jose Crespo. Concorso. Voto 7 e mezzo.
Dal 23 settembre al cinema distribuito da Lucky Red.
Premio speciale della giuria e non molti, ammettiamolo, se lo aspettavano. Anche perché Il buco non era stato così bene accolto in proiezione stampa (parecchi uffa e eccheppalle e ma cosa mai vorrà dire), specie dalla critica del salotto buono italiano, e anche tra chi aveva apprezzato qualcuno (me compreso) a ripetere l’ovvio mantra: sì, buono, ma non all’altezzza de leggendario film precedente di Michelangelo Frammartino Le quattro volte (e da allora sono passati undici anni, interrotti mi pare solo dalla videoinstallazione, magnifica, Alberi). Film che, pur con ascendenze rintracciabili nel cinema cosmico-cosmologico di Malick e in quello panico di Franco Piavoli, fissava un paradigma altro (difatti diventerà un modello di riferimento per molto cinema autorial-giovanil-festivaliero degli anni successivi), la visione di un umano affondato nel naturale senza barriere, divisioni, in un continuum che obbedisce ai ritmi, alle leggi, ai tempi di un orologio biologico collettivo. Un gesto cinematografico radicale, quello di Le quattro volte, sicché era difficile per il suo autore andare oltre, aggiungere, ri-misurarsi con un oggetto filmico. Frammartino ci ha messo più di un decennio per riprovarci con un nuovo lungo, a riprova del grado di difficoltà dell’impresa.
Il buco è (anche) l’interrogarsi di Michelangelo Frammartino sul proprio fare cinema, una specie di auto-test su come continuare senza tradirsi e insieme senza ripetere il già fatto. Tentativo coraggioso e parzialmente riuscito. Se Le quattro vole nella sua circolarità (come non pensare al tempo mitico secondo Eliade?) si muoveva all’interno di un mondo e costruiva un mondo totalmente separato, impenetrabile, chiuso a ogni interferenza esterna, autoreferente, eteramente uguale a sé stesso, questo è un film aperto e mobile. Dove la circolarità è vistosamente sostituita da una direzione lineare, anzi verticale, da uno spostamento, da un’esplorazione (gli speleologi che scendono quasi a precipizio nel ‘Buco’), dove l’universo arcaico e apparentemente immutabile della Lucania-Calabria silvestre e montana accoglie, o è costretta a accogliere, l’estraneo, l’altro (il gruppo di speleologi venuti dal Nord). Frammartino ibrida, scioglie la compattezza del proprio cinema passato e all’approccio da austero cinema del reale aggiunge, senza sottolinearla troppo anzi quasi occultandola, la fictionalizzazione. Il buco si presenta al primo e non avveduto nostro sguardo come puro documentarismo, ma si tratta di un clin d’oeil, una ben costruita illusione ottica, ben presto ci si rende conto che il film va ben oltre. Frammartino non filma l’esplorazione da parte di un gruppo di soecilaisti del Buco di Bifurto, area del Pollino, una caverna quasi perfettamente perpendicolare (se non fosse per un gomito nella parte finale), ma ricostruisce assai realisticamente e mimando il vero la prima esplorazione di quell’abisso effettuata nel 1961 da speleologi venuti dal ‘Settentrione’ (Torino, mi pare di ricordare). Che sia ricostruione ex post lo si deduce dai segni primi Sessanta che il regista dissemina qua e là: copertine di rotocalchi, visioni incerte di Rai in bianco e nero con Gemenlle Kessler danzanti e cantanti, allacciando (come in Pietro Marcello) storie minime e personali e rurali a altre più grandi, collettive, le storie di una Nazione. L’illusione è perfetta, per parecchio si ha l’impressione di assistere in diretta alla discesa fino al fondo (meno 683 metri!) del Buco di Bifurto. Se l’asse narrativo resta quello dell’inabissamento degli speologi, intorno la mdp coglie pezzi di vita nel campo-base o all’interno del vicino paese, una struttura arcaica, animali che scorrazzano accanto alle abitazioni, consumi frugali, e davvero qui si torna quasi in un’autocitazione al Frammartino di Le quattro volte. Ma l’altra storia, quella che scorre parallela e insieme opposta all’esplorazione del Buco, ci mostra un pastore, un bovaro, che pascolando la sua mandria assiste da lontano, nell’indifferenza o almeno così pare, agli sforzi di quello strano bivacco, di quegli uomini venuti da lontano. Non sempre i materiali differenti coin cui è costruito il film si amalgano anzi qulche stridore qua e là si nota, ma l’operazione è in buona parte riuscita (c’è perfino all’inizio, quasi a dichiarare teoricamente e ribadire la verticalità di Il buco rispetto alla circolarità di Le quattro volte, un docu di Giulio Macchi – gran cineasta e divulgatore scientifico – sulla coeva costruzione di un grattacielo Pirelli a Milano, il che serve a Frammatino anche per ennciare un tema sotterraneo che percorre tutto il film, lo sontro, il clash culturale tra Nord e Sud, tra modernità e ruralità arcaica). E c’è lo sguardo di Frammartino, nitido, di una trasparenza e poulizia che si fanno etica del guardare. Lunghi silenzi, parole solo funzionali, scabre, mai piegate a una drammaturgia gonfia, a uno storytelling invasivo. Contemplazione e ascolto del paesaggio e degli umani, schegge di un più vasto insieme cosmico che tutti ingloba (e qui, Malick). La discesa del Buco è, ovvio, anche viaggio inziatico, rito ancestrale, un mistero rivissuto. Praticarla, ma anche riprenderla con la mdp, è ascesi mistica. Ci sono film che più passa il tempo e più stingono nella memoria, altri che crescono e si consolidano. Il buco è tra questi e a distanza da un po’ dalle proiezioni e visioni veneziane si afferma tra le cose migliori del concorso.
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