Boy from Heaven (Walad Min Al Janna) di Tarik Saleh. Con Tawfeek Barhom, Fares Fare, Mohammad Bakri. Concorso.
Vero, in qualche modo è Il nome della rosa in versione arabo-musulmana. Siamo in Egitto, oggi, nell’università di Al Azhar, massima sede degli studi islamici sunniti. Un ragazzo arriva dalla provincia per specializzarsi nei sacri testi: si ritroverà immerso in un intrigo di potere con morti a catena. Un film magificamente scritto e girato dal regista svedese di radici egiziane Tarik Saleh. Che mostra di conoscere molto bene l’universo che mette in scena e riesce a comunicarcelo al meglio. Voto 8
Un film di genere di smagliante costruzione e conduzione, sceneggiatura di ingegneristica precisione, contesto ambientale insolito almeno per noi dell’Euro-occidente. Con uno sguardo acuto, disincantato e insieme partecipe, sul mondo arabo e islamico lontano da quell’approccio orientalista (che può volgere sia in diprezzo sia in fascinazione altrettanto acritica) stigmatizzato a suo tempo da Edward Said in un fondamentale saggio. Premessa: non è un film egiziano come immagino si sia scritto da più parti (immagino, perché ai festival non leggo quasi mai commenti altrui pr non farmi nfluenzare), è una produzione nordeuropea con un regista, Tarik Saleh, svedese, figlio di padre egiziano e madre svedese come lui stesso raccontò quando venne a Milano qualche anno fa al Noir Film Festival a presentare il suo The Nile Hotel Murder (grande successo in tutto il mondo, ignorato invece in Italia dal pubblico e, quel che è peggio, da gran parte dei media istituzionali). Per i suoi contenuti, fortemente polemici nei confronti delle attuali istituzioni egiziane (governo, magistratura, forze dell’ordine), ma per niente conciliante neppure verso l’opposizione dei Fratelli musulmani, Tarik Saleh ha dovute girare questo Boy from Heaven in Turchia. Un film che, nei modi canonici del thiller e del noir affronta punti assai sensibili come l’islamismo radicale a tendenza jihadista, la corruzione e l’autoritarismo dei regimi nordafricani e mediorientali, la segmentazione all’interno della comunità musulmana tra fondamentalisti e moderati. Il rischio per il giovane regista è di piacere sì ai festival e al pubblico euroamericano, ma di dispiacere a tutti nel mondo arabo e musulmano. Stiamo a vedere, intanto applausi e massimo sostegno. Immagino che qualcuno lo abbia già scritto (e anche qui vale quanto detto sopra: non leggo le recensioni altrui ai festival), ma davvero questo Boy from Heaven richiama Il nome della rosa di Umberto Eco. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a morti misteriose e intrighi in un mondo-a-parte religioso, là in un’abbazia medievale, qui nella Cairo di oggi nella massima sede di studi islamici sunniti, l’università di Al Azhar, un riferimento per tutta la umma in fatto di ortodossia e corretta interpretazine dei testi. Amche qui come in Eco le dispute teologiche, le interpretazione delle scritture sono tra i fattori scatenanti degli eventi. Fin qui le affinità. Tarik Saleh adotta la forma del thriller sul potere con tracce di spy story, tipo Perché un assassinio, per parlarci di parecchi temi caldi. O, al contrario, sono quelle questioni tanto intricate da essere parse, a lui di radici egiziane, il pre-testo, l’occasione, lo sfondo, il clima giusto per un film di trame e cospirazioni. Un ragazzo di nome Adam, figlio di un pescatore, ha l’occasione della vita, quella di poter entrare, se ho ben capito con una borsa di studio, nella aule di Al Azhar, essere a contatto con i più accreditati esegeti della Sunna, uscirne con le giuste credenziale per poter esercitare come imam, come pastore di fedeli. Si ritroverà al suo arrivo nella prestigiosa istituzione, scagliato subito in un mondo infido: muore il grande imam, il rettore di Al Azhar, ed è subito guerra di sucessione tra le varie lobby che agiscono nell’ombra, gli emissari dello stato he vorrebbero a capo dell’università un uomo acquiescente al potere, c’è la fazione a sostegno di un sant’uomo rispettato da tutti per la rettitudine, ci sono i radicali islamisti, che il film lascia intendere riconducibili ai Fratelli musulmani, i quali invece vorrebbero una guida più rigorista e di opposizione al regime. Le trame si moltiplicano e aggrovigliano con giochi doppi e anche tripli, fedeli e traditori ora di una causa ora dell’altra, alleanze, passaggi da un campo all’altro. Il giovane e apparentemente ingenuo Adam viene presto avvicinato da un compagno di studi e ingaggiato dalla polizia come informatore. Sarà solo l’inizio di una partita assai pericolosa in cui peraltro dimostrerà di sapersi muovere con l’astuzia consumata del politico. Il ragazzo impara presto, ha la mente fine, riuscirà a passare dal ruolo di burattino manovrato a puparo.
Ma è lo sguardo speciale di Tarik Saleh a rendere questo film diverso da tanti thriller anche assai ben fatti, uno sguardo che non è esterno alla cultura araba e musulmana e che nello stesso tempo riesce a mantenersi a una distanza critica di sicurezza. Non trapela mai, come tanto spesso nelle produzioni europee e americane, quel disprezzo malcelato, se non razzismo, verso il complicato mondo medio-orientale. Gran racconto di formazione e insieme mappatura di molte delle contraddizione che lacerano oggi l’Egitto, e non solo, Boy from Heaven stupisce per la precisione della messinscena, per come mostra di gestire una materia narrativa tanto complicata e insidiosa, per i dialoghi analitici e taglienti, per una messinscena che è ben più che funzionale. Tra i grandi momenti, la sfida tra i due studenti finalisti per il riconoscimento come miglior esperto nel salmodiare il Corano. Una sequenza meravigliosa per il virtuosimo vocale di cui i due danno prova e per come ci lascia intuire la raffinatezza a noi sconosciuta della cultura islamica. Ovazioni alla fine dello screening al Grand Theâtre Lumière, tant’è che Tarik Saleh ha ripreso in mano il microfono per ringraziare (rarissimo che succeda, a Cannes). Applausi, tanti, anche al protagonista Tawfeek Barhom, giovane ma sorprendente per sottigliezza e duttilità nell’incarnare paure e astuzie del suo personaggio. Probabile che Boy from Heaven finisca nel palmarès, resta da vedere come: migliore sceneggiatura? migliore attore? Quanto alla palma, la sua esplicita appartenza al cinema di genere e quel suo sembrare qua e là il pilot di una possibile serie (ovviamente svedese), lo tolgono dai giochi, però chissà mai. La star svedese (mi pare di origine libanese) Fares Fares, attore-feticcio di Tarik Saleh, è qui il commissario di polizia incaricato di manovrare Adam, ed è adesso, un po’ sciupato dagli anni, ancora più bravo. Come capo della polizia si vede una gloria del cinema arabo, il palestinese (di cittadinanza israeliana) Mohammad Bakri.