EO, un film di Jerzy Skolimowski. Con Sandra Drzymalska, Lorenzo Zurzolo, Mateusz Kosciukiewicz, Isabelle Huppert. Concorso. Voto 5 e mezzo
EO parte come omaggio dichiarato da parte dell’oggi 84enne Jerzy Skolimowski al bressoniano Au Hasard Balthazar (a mio parere uno dei dieci migliori titoli della storia del cinema). Peccato che poi se ne discosti e imbocchi la strada di un grotesque indignato-anarchico-picaresco certo assai coerente con la filmografia del suo autore, ma assai lontano dal modello originale, al fine di denunciare attraverso l’odissea del povero asino protagonista i mali della nostra contemporaneità. Eppure più il film urla e si agita – altro che il rigore, l’essenzialità, il lavorare per sottrazione bressoniani, qui siamo agli antipodi – più si fa invettiva adottando una frenesia di apparente ipermodernità e più sembra retrodatarsi agli anni Settanta.
Il vegliardo per niente domo Jerzy S., grande apolide del cinema come il suo ex compagno di studi Roman Polanski, espatriato negli anni Sessanta e poi tornato nella sua Polonia a impero sovietico caduto, continua a colpire nei modi di sempre, solo appena appena rinfrescati, i suoi bersagli di sempre, gli orrori del potere, di tutti i poteri, l’ottusità burocratica, la grossolanità delle élite, la religione, la violenza diffusa di un popolo sempre sull’orlo del pogrom contro un qualche capro espiatorio. Un furore denunciatorio, quello di Skolimowski, in cui l’asino EO diventa sempre più un pretesto, scivolando progressivamente da protagonista assoluto verso le periferie del film.
All’inizio siamo in un circo, dove EO – nome onomatopeico dal ragliare Hi-Ho – accompagna l’esibizione della sua custode, una ragazza di nome Kasandra che gli vuol bene e che lui ricambia collaborando senza mai ribellarsi. Poi il circo viene fermato dalle competenti autorità, gli animali, anche per via delle proteste degli ecologisti locali, confiscati e mandati in qualche campo di raccolta. Dovrebbe essere per il mite EO la liberazione, sarà invece l’inizio di un peregrinre tra il peggio e solo raramente il meglio della Polonia attuale: usato, sfruttato, percosso, maltrattato, a simbolizzare e metaforizzare, qui esattamente come in Bresson, la crudeltà del mondo sui deboli, sugli ultimi. Di disavventura in disavventura si ritroverà alla mercè di criminali e violenti di vario tipo, fino a essere coinvolto – bersaglio incolpevole – in un villaggio negli scontri tra i supporter di due squadre rivali di calcio. Se la prima parte riesce a mantenere una sua coerenza narrativa e di visione puntando sullo sguardo di EO, raccontando il mondo attraverso di lui e a lui riconducendolo, poi il film si sconnette in blocchi autonomi e irrelati tra loro, l’unità del punto di vista si frantuma in una molteplicità confusa in cui il povero asino perde la sua centralità e la rutilante messinscena prende il sopravvento. Si finisce nell’ultima parte in Italia e non è ben chiaro il perché (se non per evidenti motivi di coproduzione). E finisce nel modo che era già prevedibile a cinque minuti dall’inizio. Apparizione che non ti aspetteresti di Isabelle Huppert. Sono sei gli asini e le asine che hanno interpretato EO, tutti debitamente elencati nei credits finali. Un film che, al di là dei suo meriti o limiti, ribadisce il genere animalista – raccontare il mondo degli animali ponendo la macchina da presa al loro livello – inaugurato tre anni fa dal meraviglioso docu-verità Gunda di Victor Kossalovsky e proseguito da Andrea Arnold con Cow, presentato a Cannes (sezione Première) l’anno scorso. Cosa ci resta di EO? Lo sguardo indimenticabile dell’asino, commovente fino allo strazio. Non è poco. Ma ci resta anche il miglior soundtrack finora di questo Cannes, una partitura vera e propria, possente, come non se ne fanno più per il cinema, di una musica che richiama certa avanguardia novecentesca di stridori, dissonanze e “rumori” à la Penderecki. Autore Pawel Mykietyn.
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