Decision to Leave (Heojil Kyolshim), un film di Park Chon-wook. Con Tang Wei, Park Hae-il, Go Kyung-pyo, Lee Jung-hyun, Jeong Ha-dam, Park Yong-woo, Jung Yi-seo, Kim Shin-young, Seo Hyun-woo. Concorso. Voto 5
Ha scritto l’altro giorno Andrea Bruni su Facebook: “Ad un Festival si vedono tipo 5 film al giorno in condizioni di umano abbruttimento. Sonno azzerato, cibo latitante a meno che non si riesca a vivere solo di panini da Discount dei Poveri. Ergo ogni giudizio critico da un Festival, visto l’annebbiamento mentale, non vale una cippa lippa”. Detto da un critico e cinefilo che il festival di Venezia l’ha molto frequentato. Tranchant, certo, ma con il merito di porre una questione cruciale che tanta stampa tende invece a eludere continuando a restituire dei festival un’immagine sublimata e armonica di tempio dell’arte cinematografica: le talvolta (spesso) infernali condizioni di lavoro e di visione cui l’accreditato (stampa o altro) è costretto a un festival del massimo tipo, Cannes prima degli altri, poi Venezia e Berlino, come influiscono sulla fruizione di un film e sulla formulazione del giudizio? Vengo alla mia esperienza personale: ieri alla proiezione al Grand Theâtre Lumière di Showing Up di Kelly Reichardt (bello) stavo seduto tra un tizio alla mia destra che russava, un ragazzo asiatico a sinistra che dormiva sereno a bocca aperta come un bambino in culla, altri tre nella stessa fila più o meno dormienti, ed è una scena per niente rara. (Ricordo a un Venezia un mio vicino che dopo aver russato per tutto il film, alla fine si è svegliato di colpo applaudendo freneticamente e urlando “capolavoro! capolavoro!”). Quanto alla visione di questo Park Chan-wook tre giorni fa alla Salle Debussy, in orchestre (come en France è detta pomposamente la platea), settore di destra estrema: confesso, ho faticato a stare sveglio. Non solo per colpa del film. Sono i ritmi della macchina festivaliera a risucchiarti e toglierti energie e tempo per il riposo. Quest’anno a Cannes molte proiezioni stampa del concorso sono state alle 22 o alle 22.30, alcune delle durata di due ore e più, Le otto montagne ad esempio 2 ore e 30 e quindi finito alla 1.00 (poi certo c’è la casta dei quotidianisti, nazionali e internazionali, che i film del concorso se li vede in esclusive proiezioni mattutine alla Bazin: entrare è come essere ricevuti in udienza privata dalla regina Elisabetta o Papa Francesco). La mattina dopo sveglia al più tardi alle 6.45 per essere pronti alle 7.00 precise a prenotare, sull’ormai mitologico sito dedicato, i film più ambiti, che se appena ritardi due secondi rischi di trovarli già soldout. Caso esemplare: Elvis di Baz Luhrmann, “availability pending” alle 7 in punto. Tenendo conto che al giorno si vedono mediamente, almeno io vedo, quattro o cinque film, ecco spiegati colpi di sonno e stanchezza e scarsa lucidità. Tornando a Decision to Leave di Park Chan-wook: trattasi di un thriller con femme fatale parlatissimo, ovviamente in coreano, con sottotitoli in francese e in inglese assai complicati e spesso demenziali (ci si chiede sempre chi siano i responsabili di certi obbrobri o di certi subtitles stracolmi di gergalità che perfino un linguamadrista stenta a decifrare).
Ecco, questa lunga premessa o se preferite disclaimer per dire che non saprei quanto la mia stanchezza abbia influito sul giudizio di Decisione to Leave. Che non ho amato, che mi ha fatto sbuffare più volte, che mi è sembrato inutile e ingorgato di cliché, un “polar” che, come scrive LesInrocks (almeno qualcuno che la pensa come me c’è, visto che la stragrande maggioranza ha elogiato) “tourne à vide”, gira a vuoto.
Sì, avevo sonno, ma anche Park Chan-wook ci ha messo del suo. Scordatevi il signore dei massacri estetizzati, il regista di Old Boy e di Vendetta non abita più tra noi, riconvertito a un cinema di bellezza tendente alla sovrumana perfezione dove lo stile è tutto e il resto poco o niente, solo un pretesto per il narcisismo del metteur-en-scène. Svolta che si era già annunciata a Cannes nl 2016 con il The Handmaiden, dove storia coreana (con occupazione giapponese), divisioni di classe, erotismi tra padrona e serva venivano convogliati verso il laboratorio di imbalsamazione del signor Park Chan-wook. Deriva ulteriore in questo nuovo film, amatissimo dai critici anglofoni (qualcuno ha perfino scritto: “la storia più romantica dell’anno”, ma dove? ma perché?), abbastanza dagli italiani a Cannes. E invece inerte, privo del minimo soffio vitale, con personaggi che sono statue di cera in attesa di essere esposte al museo, un esercizio di stile applicato se non al nulla al pochissimo. Per quanto curi maniacalmente messinscena e messa in quadro e posizionamento della mdp (anche la scena dal punto di vista drammaturgico più insignificante viene servita con estenuate riprese ammalianti ma del tutto autoreferenti: come il detective allo specchio ripreso da dietro un angolo e del quale vediamo solo l’immagine riflessa. Sensazionale, ma a che pro?), Park sembra il primo a non essere interessato alla storia che racconta
Siamo dalle parti del noir-thriller-crime-polar con dark lady o femme fatale (le due categorie spesso si sovrappongono). Muore un signore dalla vita pubblica e privata non limpida. Caduto, lui appassionato di montagna, da un picco quasi inaccessibile. Ipotesi prevalente, il suicidio. Ma un detective della polizia di stato probo e serio non si accontenta della spiegazione più semplice e sospetta l’omicidio. Maggiore indiziata è subito la moglie, molto più giovane del defunto e ovviamente bellissima (l’attrice è Tang Wei, già protagonista di Lust, Caution di Ang Lee, inopinato Leone d’oro a Venezia 2007: gentile cadeau del presidente di giuria Zhang Yimou), una cinese rifugiatasi in Corea del Sud di professione infermiera-badante di più o meno adorabili vecchine. I sospetti su di lei aumentano quando emerge che ha praticato in patria l’eutanasia alla madre con quattro compresse du Fentanyl, quel letale oppioide che ha devastato mezza America rurale. Innocente o colpevole? Si pensa a infiniti noir, in testa Il caso Paradine di Afred Hitchcock (anche lì una straniera con marito anziano e presto defunto). Il buon poliziotto sospetta ma si lascia sopraffare e irretire dal fascino della gattamortesca giovane vedova. Decision to Leave prosegue sinuosamente, il che sta per esasperante, e se a noi poveri spettatori le prove a carico della belladonna paiono schiaccianti, il detective resta dubbioso. Ci sarà un altro omicidio e qui mi fermo. Un intrigo che ti sembra di avere già visto mille volte, anche se è la prima in coreano. Un résumé di decine e decine di film della nostra vita. Tra le squisitezze di questo prodotto bello ma devitalizzato come una farfalla trafitta dallo spillone e messa sottovetro, una ripresa dall’alto, immagino via drone, di due macchine parcheggiate delle quali vediamo solo le ombre sull’asfalto (mostrare le macchine sarebbe stato volgare e cheap). E di cui solo attraverso le ombre vediamo il successivo movimento. Si freme per tanto splendore, ma può bastare?