Nostalgia, un film di Mario Martone. Con Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi. Concorso.
Goffaggini, come il personaggio impossibile da reggere anche per un attore come Favino, di un uomo che torna a casa dopo 40 anni di autoesilio parlando una lingua italo-napoletano-araba francamente inudibile e imbarazzante. Oscillazioni tra film di camorra, film di denuncia, thriller esistenziale senza mai un baricentro. Voto 5
È da quando l’ho visto, ormai è passato qualche giorno, che cerco di capire come mai non mi abbia convinto anzi mi abbia deluso fino allo sconforto, mentre alla quasi totalità dei giornalisti presenti a Cannes sia piaciuto da abbastanza a molto (Hollywod Reporter, Variety, Guardian ecc.). Cos’è che non funziona in questo film dalle ottime inenzioni e premesse eppure mancato? Pierfrancesco Favino, innanzi tutto. Non lui, che è quel solido e esperto attore che conosciamo, ma il suo personaggio. Un personaggio impossibile da cui nessuno, neppure il Brando resuscitato, uscirebbe indenne. Come si fa a rendere credibile un napoletano già ragazzo dei vicoli che dopo 40 anni di lontananza tra Libano, Sudafrica e soprattutto l’Egitto del Cairo – dove si è sposato con una dottoressa e ha improbabilmente messo su un’impresa edile di successo internazionale – torna a casa? Da una madre ormai anziana e sofferente, in una città trasformata ma che per lui, nel cuore, è rimasta la stessa. Come si fa a far parlare al malcapitato, incolpevole Favino un italiano peraltro assai coltivato con un accento egiziano? Senza mai o quasi un’eco della precedente lingua napoletana. E in platea ci si imbarazza per lui, quando lo si sente arrancare dietro quella lingua artificiale, finta, inesistente in natura, che è solo di questo film. Forse gli stranieri non hanno potuto coglierne l’inverosimiglianza, ma noi italiani, costretti a tapparci le orecchie, abbiamo colto fin troppo bene. Sembra un dettaglio, è invece un elemento fondamentale che mina l’intera struttura di Nostalgia (tratto da un romanzo di Ermanno Rea, di cui, non avendolo letto, non saprei dire quanto sia rimasto e quanto no nel film). Non sarebbe stato il caso di provare con un attore arabo se proprio a Felice si voleva lasciare quell’accento? O di cambiare la provenienza cairota di Felice Lasco in una più facile da riprodurre vocalmente? Naturalmente il ritorno a casa di Felice non è solo nostalgia, è la conclusione di un lungo autoesilio che, scopriremo, nasconde la scena madre, il trauma originario, quello che segnato la vita di Lasco ragazzo e poi adulto oltre che di un suo amico, Oreste. Che adesso è il boss più potente della criminalità napoletana, feroce e temutissimo. Felice vuole incontrarlo, impresa che si rivelererà assai difficile, mentre intorno a lui cresce un clima di minaccia. Lo conforta solo l’incontro con un prete, come si diceva negli anni Ottanta-Novanta, di strada, Don Luigi, che cerca di opporre resistenza al dominio del camorrista Oreste detto “Malommo”. Al fondo della storia, a costituire il suo vero nucleo al di là della tanto esibita napolitudine (Napoli capitale sommersa, anche nella ferocia, del Mediterraneo, Napoli miseria e nobiltà ecc. ecc.), c’è la relazione mai chiarita tra Felice e Oreste, la sua incandescenza negli anni giovani dei due, la sua fine imediatamente dopo. Perché siamo più dalle parti del cinema sul doppelgänger, sull’altro da noi che rispecchia e rimanda la nostra immagine insieme deformata e fedele, che nel gangster-movie alla Gomorra come sembrerebbe (e come l’hanno ovviamente subito catalogato gli stranieri). O nel cinema di denuncia delle storture sociali.
Napoli come panorama interiore esternalizzato e fatto case, sole, polvere, ambienti luridi e ambienti magnificenti, come materializzazione delle pulsioni e psicologie dei personaggi. Operazione che a suo tempo era riuscita a Martone con L’amore molesto, ma che qui fallisce. Napoli come sedimentazione di storia, contenitore e generatore di storie infinite e inesorabile, luogo del destino, inizio e fine di tutto: solo che Martone cerca di restituircela attraverso la metafora fin troppo ovvia e esibita delle catacombe. Il rapporto tra Felice e Oreste riemerge e scompare per poi ritornare senza mai diventare cuore e viscere di un film in continua oscillazione e privo di baricentro. Finale telefonatissimo, quindi depotenziato del suo pathos. Lunghe peregrinazioni di Felice-Favino dentro e oltre Napoli senza che mai il vagare diventi alla Antonioni geografia dell’anima. Momenti no, come quando il protagonisgta nelle catacombe si sofferma di fronte all’affresco di “una donna di origine nordafricana”, spiega la guida, e da parte della regia repentino cambio di inquadratura con primo piano della moglie al Cairo. Goffaggini che si stenta ad accettare da un regista esperto. Per non dire dell’inesplicabilità di molti fondamentali snodi. Perché Felice torna a Napoli? Perché, se non l’ha mai fatto per 40 anni? Cosa si aspetta dall’incontro con Oreste? Se è un cupo abbandonarsi al proprio destino allora sarebbe dovuto essere questo, da subito e senza troppe deviazioni (tutta la parte della comunità di Don Luigi per capirci), il centro del film, la sua ragione d’essere. Ma non è così.
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