Music, un film di Angela Schanelec. Con AVoto 9
E se fosse finalmente per Angela Schanelec la consacrazione? Lei che un Orso se lo meriterebbe per come da anni, dai tempi della sua appartenenza alla cosiddetta Berliner Schule (come la Maren Ade di Toni Erdmann, come l’ormai maestro del cinema tedesco Christian Petzold), persegue un’idea assoluta di cinema, senza nulla concedere al mercato, al pubblico, a niente, a nessuno, forse nemmena a lei stessa. Un cinema dell’essenziale, antinarrativo fino alla provocazione, penitenziale, austero fino alla non comunicabilità e alla catatonia, un cinema di sottrazione e scarnificazione che rischia, per rinunciare a ogni orpello, di svuotarsi, di essere il nulla. Ma che non può non affascinare o turbare per la coerenza e la radicalità, come ci hanno affascinato certi santi & asceti del cinema fedeli salla propria visione (e missione). Straub, Godard, almeno un certo Godard, Bresson. Per dire l’area in cui la Schanelec può essere inclusa. Schanelec che anche stavolta (era già successo a una precedente Berlinale) ha spiazzato, annoiato, esasperato e diviso pubblico e critici di ogni genere e generazione. Con un manipolo di fedeli a sostenerla.
Addirittura un sito di betting la mette come favorita all’Orso d’oro. Magari succedesse, sarebbe un miracolo e un atto di giustizia, entrambi eventi assai rari. Invece temo vincerà ancora, come negli ultimi due-tre anni ai vari festival, il cinema femminile correttissimo che sa intercettare con furbizia l’air du temps, mi riferisco all’assai bene accolto (da signore e signori di pubblico e stampa) spagnolo-basco o basco-spagnolo 20.000 specie di api, che secondo me l’Orso ce l’ha già in tasca (invoco i componenti della giuria più capaci di cinema e pensiero diferente come Radu Jude e Johnnie To a darsi da fare perché non prevalga) con la storia ricattatoria del suo bambino transgender. Mi riferisco, ancora, al messicano Tótem, l’ennesimo ritrattone di famiglia di mano femminile con bambini urlanti, mamme, zie, cugini, cognati, amici, tutti radunati intorno a un giovane uomo bello e malato come un eroe romantico. Per carità, si tratta di film discreti e rispettabili, ben girati (con però uso e abuso della macchina a mano trasformata in strumento di stalking: quell’impudico stare addosso ai personaggi!), ben scritti e interpretati, è la paraculaggine, anche se non cinicamente perseguita ma solo inconscia, a infastidire. Largo al cinema delle donne? Bene, si premi la Schanelec. Prima di questo avevo visto altri suoi due film, il primo, The Dreamed Path, a Locarno 2017, il secondo, I was at home, but, alla Berlinale 2019. Tutti e due assai ostici. Rileggendo le mie recensioni di allora mi rendo conto di come abbia faticato a percepirne la statura autoriale (al primo film avevo dato 4 e mezzo, e adesso mi cospargo il capo di cenere, al secondo 6 e mezzo: cominciavo a capire). Con questo Music ogni mia riserva è caduta: anche se Angela Schanelec radicalizza ulteriormente il suo fare cinema portandolo al limite estremo della comprensibilità, decostruendo e sabotando la narrazione, procedendo per sequenze e blocchi molecolari che paiono autocefali, celibi, non connessi ai precedenti e ai successivi. Un cinema che ci sfida, ci costringe a interrogarci senza mai darci risposte. Ma a compensazione di quanto ci sottrae Schanelec parecchio ci dà. Il senso di un cinema trascendente, un’ascesi in cui man mano il superfluo viene dismesso, distrutto, cancellato perché solo l’essenza rimanga. Un cinema disseminato di segni, presagi, indizi, consonanze, suggestioni, misteri che la regista ci sfida-invita a decifrare, in una sorta di mindgame. Cinema che ci infligge sofferenze contando sul nostro masochismo, sapendo benissimo (il cinema sa) che il masochismo è un piacere.
Cos’è, com’è Music? Vediamo all’inizio un uomo disperato che cerca di scalare un dirupo brullo portandosi sulle spalle una donna assai provata, di cui scorgiamo appena la figura. Chi è, chi sono? Due profughi arrivati clandestinamente? da dove? e dove ci trovamo? Non certo in Germania, benché il film sia tedesco. Quel paesaggio riarso sembra piuttosto Anatolia (saranno profughi siriani?) o Balcani. Poi appare il mare, e allora si pensa alla Grecia, ma non alla Grecia felix e convenzionale del turismo di massa, piuttosto a quella introversa, scabra, polverosa di certo Anghelopoulos. Ovviamente la regista non ci fornisce alcun appiglio, limitandosi a mostrare. Sarà così anche per il resto del film. Scopriremo che sì, di Grecia si tratta, Grecia tra ventesimo e ventunesimo secolo (l’unica data sicura è il 2006, quando alcuni personaggi assistono alla finale dei mondiali vinti a Berlino dall’Italia), ma dove risuonano echi di tragedia classica. Anche qui, dobbiamo ipotizzare, intuire, tracciare qualche linea tra i punti variamente disseminati. Poi, a avvalorare l’intuizione, arriva la lettura (che ho fatto solo post-visione) della sinossi sul sito del festival dove si parla di richiami all’Edipo di Sofocle: connessione confermata dalla stessa regista in conferenza stampa quando ha rivelato come l’idea di questo Music l’abbia avuto rivedendo l’Edipo re di Pasolini (strana coincidenza: un’altra regista, la francese Alice Diop, ha recentemente citato un altro film di Pasolini, Medea, nel suo Saint-Omer: per dire la fascinazione di lunga durata esercitata dal cinema di quel grande).
Ora una griglia interpretativa l’abbiamo: Music ha a che fare con l’archetipico Edipo. Ma quanto ci sia di Sofocle, ovviamente rivisitato e contemporaneizzato, lo dobbiamo scoprire da soli, la mappa fornitaci da Schanelec resta vaga e misteriosa, anche se non più del tutto indecifrabile. Dopo la scena iniziale vediamo poliziotti e medici salvare un neonato in una caverna o in una stalla, probabilmente partorito dalla donna sofferente appena intravista. Ma dov’è finito l’uomo? e lei, la madre, è morta dopo il parto? Scene successive: una coppia di cinquamtenni sulla spiaggia con un neonato (lo stesso di prima, si immagina); un gruppo di ragazzi e ragazze sulla spiaggia (la stessa spiaggia o no?); un uomo tenta di baciare uno dei ragazzi, ma viene respinto e malmenato. Non dico altro, se non che con questo andamento sussultorio di scene irrelate tra loro si continua fino all’ultima inquadratura. A un certo punto la scena si sposta dalla Grecia a Berlino. Dove accadranno altri fatti decisivi benché sempre misteriosi. Intanto in corso di (non) narrazione la musica acquista un’importanza via via maggiore, scopriamo che il giovane uomo protagonista è un controtenore (Treccani: “Nel linguaggio musicale, voce maschile corrispondente al registro di contralto e con forte timbro femminile, usata soprattutto in alcuni ruoli che un tempo erano proprî dei cantanti castrati”) specializzato in musica barocca che poi si evolve, o involve, verso la produzione-esecuzione di un pop sofisticato e aristocratico.
Certo, Music non è destinato a piacere a chi invoca, tirando in ballo l’incolpevole Hitchcock, un cinema che sia “la vita con le parti noiose tagliate”. Anche se vincesse l’Orso, Schanelec non sarà mai un’autrice “da pubblico”, continuerà ad appartenere a quei resistenti che non scendono a patti, che ancora credono al cinema come puro gesto creativo e come pensiero, indagine, ricerca, rischio, scommessa. Ma almeno quel suo stile scabro, quella sua ricerca d’assoluto vengano visti con rispetto. Mentre scorrevano le immagini ho pensato al Bauhaus, al suo teorizzare e praticare il rigetto del superfluo, ho pensato agli interni delle chiese luterane, muri spogli, linee architettoniche rigide (avete in mente Luci d’inverno di Bergman?). Per dire quanto questo film sia così profondamente tedesco. Molti qui a citare parentele con il cinema greco dei primi Duemila, quello della coppia Lanthimos-Filippou e di Athina Tsangari, ma Schanelec non ha quello sguardo indifferente e gelido, è aliena da certe derive nel bizzarro e nel grottesco. Adesso, stiamo a vedere se la giuria avrà il coraggio di inserirla nel palmarès. Questione di ore e sapremo (la cerimonia di chiusura incomincia sabato alle ore 19). Riguardando la mia recensione del precedente film della Schanelec, I was at home, but, vedo che avevo titolato Amleto a Berlino. Qualcosa dopotutto avevo capito.
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