
20.000 specie di api
Alle 18.30 tappeto rosso in diretta stremanig, dalle 19 cerimonia di chiusura e premiazione, di solito piuttosto lunga. Ormai ci siamo, manca poco più di un’ora. I favoriti per l’Orso d’oro sono due su tutti, almeno secondo gli addetti ai lavori presenti: lo spagnolo-basco 20.000 specie di api di Estibaliz Urresola Solaguren e il messicano Totem di Lila Avilés. Non sono i migliori, anzi s’è visto parecchio di più interessante anche in un concorso non brillantissimo come quello che si è chiuso ieri. Ma sono entrambi firmati da registe donne, il che ben predispone, non nascondiamocelo, oltretutto il primo tratta con indubbia finezza e misura il tema spinoso ma anche politicamente corretto e perfettamente in linea col wokismo imperante dei bambini transgender, o meglio, non-cis, che non si identificano con il loro genere biologico. Quale giuria potrebbe mai mostrarsi insensibile? Di sicuro non quella della Berlinale 2023 presieduta da Kristen Stewart. L’altro, Totem, mette in scena come quello di Estibaliz Urresola Solaguren, come il fim che qui ha vinto l’anno scorso, Alcarrás (la cui regista Carla Simon, non dimentichiamolo, è in giuria) un clan familiare di forte, anzi egemonica presenza femminile: non a caso qui la sarabanda di parenti vicini e lontani, l’ennesima (stavolta rumorosissima per bambine particolarmente petulanti), ruota intorno alla figura di un giovane bello e malato come un eroe romantico (mi autocito, vedi recensione di Music: mia sia perdonato). Metafora della crisi irreversibile del maschio e della supremazia femminile?
Da un paio di giorni sono salite molto in fretta le quotazioni del meraviglioso Roter Himmel (Cielo rosso) di Christian Petzold, un regular della Berlinale però mai premiato con l’Orso, e sarebbe anche il momento di riparare, visto che ormai è giustamente assurto al rango di maestro del cinema tedesco. Il suo è il film più bello, insieme al sorprendente e ostico Music di Angela Schanelec. Parte come una commedia con echi rohmeriani e perfino lubitschiani, e con qualcosa pure del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (per carità, solo qualcosa) – e questa tonalità di commedia mi pare una novità per Petzold – per poi virare sul romanticismo profondo-germanico (non per niente si cita e si legge Heine), con finale che è una fucilata al cuore dello spettatore. Un film iperstratificato, che oscilla tra registri diversi e perfino opposti senza stridere, a confermare di come ormai il regista sappia maneggiare progetti complessi con sicurezza. Qualcuo dà qualche chance a quel capolavoro, così a me almeno è parso, che è il potente Music di Angela Schanelec. Non del tutto fuori dai giochi neppure Philippe Garrel, che ha portato qui forse la sua cosa migliore da parecchi anni in qua, Le Grand Chariot, dove lascia intravedere un qualcosa di autobiografico. Un altro ritratto di famiglia, ma lontano per clima e coloritura da 20.000 specie di api e Totem. Un premio andrà probabilmente, ma non credo sarà l’Orso d’oro, alla rivelazione di questo concorso, Past Lives della coreana-americana Celine Song.
Poi, dopo quanto s’è visto agli ultimi festival – chi mai avrebbe pronosticato la Palma d’oro a Titane o il Leone veneziano a Tutta la bellezza e il dolore di Goldin-Poitras? – tutto può succedere e tutti o quasi possono vincere. Inutile tentare pronostici sugli altri premi: verranno spartiti secondo una logica risarcitoria tra i film entrati nel radar della giuria ma che non ce l’hanno fatta a vincere. Qualche prediction la si può tentare se mai sul premio per la migliore interpretazione (che qui è unico, non più di “genere”: Berlino sul woke è sempre avantissimo). Da quando è stato unicizzato, il riconoscimento non è mai andato ovviamente a un uomo, credo sarà così anche stavolta (tutt’al più potrebbe farcela Simon Baker, protagonista dell’australiano Limbo: il giurato Johnnie To potrebbe sostenerlo). Sarebbe una sorpresa, ma non troppo, se il premio venisse assegnato alla bambina che interpeta la Lucia transgendere di 20.000 api, Sofia Otero, ma potrebbe portarselo a casa anche la bellissima Patricia López Arnaiz, che nel film è la madre. Altri candidat*: la transgender protagonista dell’asai interessante noir tedesco, anzi krimi, Till the End of the Night Thea Ehre (nota: il cinema tedesco è davvero in forte ascesa e il concorso di questa Berlinale lo dimostra). Altri due nomi con buone probabilità di farcela: la diva del cinema euroautoriale Vicky Krieps, che dopo Sissi ha qui incarnato Ingeborg Bachmann nel film di Margarethe Von Trotta. E, ovviamente, la meravigliosa Paula Beer di Roter Himmel. Ma a prevalere, visto che siamo alla Berinale, il festival più woke e sensibile alle minoranze che c’è, potrebbe essere l’attrice di The Survival ok Kindness di Rolf De Heer. Lei si chiama Mwajemi Hussein ed è il lato migliore di un film dimenticabile.