
Sur l’Adamant
La giuria presieduta da Kristen Stewart e composta da Goldshifteh Farahani, Johnnie To, Radu Jude, Valeska Grisebach, Francine Maisler, Carla Simón ha emesso il suo verdetto. Ed è effetto Venezia: dopo il Leone d’oro assegnato lo scorso settembre al Lido a Tutta la bellezza e il dolore di Laura Potras, anche qui alla Berlinale prevale un documentario. Ma veniamo alla lista dei premiati.
ORSO D’ORO AL MIGLIOR FILM
Sur l’Adamant di Nicolas Philibert
Orso d’argento Gran premio delle giuria
Roter Himmel (Afire) di Christian Petzold
Orso d’argento Premio delle giuria
Mal Viver di João Canijo
Orso d’argento al miglior regista
Philippe Garrel per Le Grand Chariot
Orso d’argento per la miglior interpretazione da protagonista
Sofia Otero in 20.000 Species of Bees
Orso d’argento per la migliore interpretazione da non protagonista
Thea Ehre in Till the End of The Night
Orso d’argento alla migliore sceneggiatura
Angela Schanelec per Music
Orso d’argento per lo speciale contributo artistico
Hélène Louvart per la fotografia di Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Commento: certo, avrei preferito che l’Orso d’oro fosse andatato a Music della Schanelec, un film destabilizzante e sovversivo per la lingua cinematografca adottata, per come fa uso del vuoto, del silenzio, del non detto. Per come ri-racconta e non-racconta una storia archetipica. O avrei preferito che vincesse Christian Petzold, che con Roter Himmel ha dimostrato definitivamente quel che vale, sfiorando il capolavoro con la costruzione di una commedia romantica che continuamente ridiscute la propria forma e nega sé stessa. A loro altri premi: a Petzold il secondo per importanza del palmarès, alla Schanelec quello che ai festival è il classico risarcimento a chi è arrivato sul tavolo della giuria ma ha troppo diviso e non ce l’ha fatta a vincere, ovvero il premio per la migliore sceneggiatura.
Ma anche se Sur l’Adamant di Nicolas Philibert non è il mio Orso personale (poche le sorprese da un autore molto conosciuto e già molto visto, presente in festival precedenti, Berlinale compresa), devo ammettere che il film è all’altezza della fama del suo regista per il suo guardare rispettoso, per come coinvolge senza essere ricattatorio lo spettatore. A una visione d’insieme il palmarès mi sembra abbastanza equilbrato e centrato, meglio di certi scempi cui si è assistito negli ultimi anni a vari festival. Innanzitutto, e non è poco, si è interrotta la nefasta catena del premio obbligatorio al cinema delle donne, sulle donne, intorno alle donne e altri soggetti variamente vittime della cultura patriarcale e/o suprematista occidentale, nefasta catena figlia della cultura cosiddetta woke. Non hanno prevalso i due titoli dati per massimamente favoriti e che delle convenzioni e manierismi del “cinema al femminile” abbondavano, il basco-spagnolo 20.000 specie di api su un bambino che si sente bambina e il messicano Totem, ritratto di una grande famiglia che si stringe intorno a un giovane uomo assai malato. Il secondo titolo è stato ignorato, il primo è entrato in palmarès attraverso il premio per la migliore interpretazione a Sofia Otero, davvero straordinaia nel ruolo del piccolo transgender protagonista. Premio in quota woke, ma che ci può stare: Sofia Otero è in effetti portentosa. Sempre in quota politicamente correttissima rientra l’Orso d’argento (ri-ricordoo, lo faccio ogni volta che vengo qui, che tutti i premi della Berlinale che non siano l’Orso d’oro sono Orso d’argento: che quindi non è il secondo premio) “for best supporting perfomance” alla trans Thea Ehre per il ruolo di femme fatale nel notevole noir anzi krimi tedesco Fino al termine della notte. Anche qui, niente da dire: Ehre è una presenza forte. Diciamo che la giuria in questi tempi intersezionali-woke ha saputi cavarsela brillantemente con questi due premi senza concedere altro.
Ma torniamo a Sur l’Adamant. Philibert (anni 72, documentarista di lunga carriera e solida fama che nel 2002 ottenne anche un travolgente successo di pubblico con Essere e avere su una classe di un villaggio francese) stavolta va a portare la sua macchina da presa su un bâteau, l’Adamant, ancorata nella Senna e adibito a punto di accoglienza, ritrovo e cura dei sofferenti psichiatrici con terapie che non siano solo farmacologiche ma che tengano conto della singolarità di ciascuno, della sua vita, delle sue passioni, dei suoi trascorsi.Con mezzi che sono l’ascolto, sedute di gruppo, il disegno, la pittura, la musica, la danza come ricerca sul corpo e il gesto. Davanti a noi scorrono le facce e i corpi dei malati, con le loro storie a volte straordinarie, pazienti che sanno offrirci altri sguardi, altri punti di vista sul reale e su ciò che nel reale non è così evidente. Una galleria strordinaria di ritratti, di uomini e donne che Philibert avvicina con pudore e una mai affettata complicità (che differenza dalla macchina a mano prepotente che annulla ogni distanza e si incolla alla pelle dei personaggi di altri film di questa Berlinale). E ci sono momenti, nonostante il dolore, di vero incanto e bellezza. Credo che a nessuno sia dispiaciuto Sur l’Adamant. Forse è questa capacità di Philibert a cercare e ottenere il consenso di tutti gli spettatori, questa sua levigatezza, questo eliminare ogni attrito tra schermo e platea a essere, non dico il limite, ma il punto su cui convergono dubbi e perplessità.
Garrel padre ha portato in Berlinale quello che è forse la sua cosa migliore degli ultimi anni (e a colori, non nel suo solito confortevole bianco e nero), una storia di famiglia – ancora! sono infinite le storie di famiglia di questa Berlinale – in cui credo si rifletta qualcosa dello stesso, degli stessi, Garrel. Difatti a interpretare i figli del marionettista al centro della storia sono i tre figli di Philippe Garrel, Louis, Esther e Lena. Le Grand Chariot, che tradurrei come Il carrozzone, è non solo il ritratto affettuoso benché mai sentimentale di un mondo e un mestiere a rischio d’estinzione, è anche, à la Garrel, un intrico di sentimenti e relazioni complicate e ondivaghe. Un film girato con la sapienza di un maestro che viene da lontano. Poteva vincere l’Orso, come Schanelec, come Petzold, e non ci sarebbe stato niente da ridire, anzi molto per esultare.
Gli altri due premi: quello a Mal Viver del portoghese João Canijo è il più discutibile del palmarès. Due ore spossanti. Anche qui una famiglia, tutta al femminile, quel che resta dopo la morte recente del padre, del Padre: la matriarca, le sue due figlie tra i trenta e i quaranta, la prima delle quali donna bellissima divorata da tutte le nevrosi possibili. Con una figlia adolescente implacabile nell’accusarla. E poi, una governante-tuttofare che si occupa di loro e dell’hotel di proprietà della famiglia dove hanno deciso di ritrovarsi tutte per una riunione che si rivelerà fatale. Niente di nuovo: i soliti rinfacci, i soliti impietosi rapporti madre-figlia. Materia su cui il cinema americano e non solo ha sempre dato molto, da Lo specchio della vita a I segreti di Osage County, solo che qui alla mdp abbiamo un portoghese di alta autorialità e quindi inquadrature fisse e piani sequenza, recitazione ieratica, messa in quadro e messa in scena da teatro Kabuki, silenzi, piani visivi e sonori sovrapposti, giochi di ombre e di riflessi. Si arriva distrutti alla fine. Ma il premio non mi infastidisce. Mal Viver non mi è piaciuto, ma vorrei rivederlo con calma, senza la stanchezza e i debiti di sonno da festival. C’è anche un po’ di Italia nella lista: è il premio per la fotografia, strameritato, assegnato a Hélène Louvart per Disco Boy dell’italiano Giacomo Abbruzzese. E però il film più che nostro è di coproduzione internazionali con prevalenza francese.