Berlinale 2023. Recensione: LE GRAND CHARIOT di Philippe Garrel. Giusto il premio per la migliore regia

Le Grand Chariot (The Plough), un film di Philippe Garrel. Con Louis Garrel, Damien Mongin, Esther Garrel, Lena Garrel, Francine Bergé. Concorso. Orso d’argento per la migliore regia. Voto 8 e mezzo
Ma quelle che pssano sullo schermo sono marionette, come tutti hanno scritto (me compreso) dopo la proiezione alla Berlinale, o burattini? Risposta: burattini signori, burattini! Secondo la Treccani digital difatti “il burattino è costituito da una testa, alla quale è congiunta una veste aperta in basso in cui il burattinaio infila la mano, animandolo. (…) Il termine burattino tende a essere usato come sinonimo di marionetta, che è invece a figura intera, azionata per mezzo di fili.” Coloro che vediamo all’opera in Le Grand Chariot – Il grande carro o, forse, Il carrozzone – “infilano la mano” nelle loro creature di legno, carta e stoffa, sono quindi, indubitabilmente, burattinai. Mestiere di nobile tradizione che riemerge in questo nuovo lavoro firmato Philippe Garrel, anni 74, molto affezionato al festival di Berlino (anche il suo precedente Le sel des larmes era stato presentato in concorso qui), detto non senza pigra approssimazione “l’ultimo esponente della Nouvelle Vague”: lavoro che si è giustamente preso il premio per la migliore regia sfiorando l’Orso d’oro. Da sottolineare come pure Nicolas Philibert, il vincitore con Sur l’Adamante,  sia un ultrasettantenne (quota 72) e come il portoghese João Canijo, premio della giuria per l’estenuante Mal Viver, nemmeno lui sia un ragazzetto (anni 66). Il trionfo del boomer della fascia più matura ed è un aspetto della Berlinale 73 che una qualche riflessione la meritebbe (finora non si segnalano mugugni e vibrate proteste e indignazioni da parte dei millennial: stiamo a vedere). Allora: Le grand chariot, forse il miglior Garrel degli ultimi anni per la ricchezza e molteplicità della linee narrative, per come vengono tenute sotto controllo e armonizzate, per la naturalezza con cui si passa dal drammatico vero alla leggerezza quasi rohmeriana.
Il burattinaio padre e ormai patriarca al centro della storia non ha mai abbandonato – siamo dalle parti di Parigi – il mestiere di famiglia e lo sta trasmettendo agli eredi, un giovane uomo e due giovani donne che volentieri, apparentemente senza frizioni o recriminazioni, già lo affiancano nelle messinscene e nella meticolosa preparazione degli spettacoli. Un quadro familiar-professionale senza elementi dissonanti di cui fa parte, amatissima, la nonna, signora che molto ha vissuto e combattuto. Si unirà poi a loro come fondamentale aiuto per la compagnia un giovane pittore-scenografo assai inquieto. Qualcosa sta per succedere, e succederà, rompendo l’equilibrio e segnando la fine di quel piccolo Eden. Ognuno seguirà la propria vocazione, personale e professionale, facendo i conti con l’impossibilità di continuare insieme, mentre il mestiere dei burattini sembra avviato al tramonto anzi condannato (sarà una metafora garrelliana della situazione attuale del cinema?).
Si ha l’impressione che ci sia qualche traccia personale nel film, che Garrel regista abbia immesso qualcosa di sé nella figura del padre burattinaio, nella sua ostinazione nel tenere compatta la famiglia. Un padre padrone però gentile e amorevole, che non può che soccombere all’avanzare dei tempi nuovi. Che Le Grand Chariot sia anche (anche) un’autonarrazione lo suggerisce la presenza come attori dei tre figli del regista, il divo Louis in testa (ma quanti film gira l’anno? e noi in Italia a lamentarci dell’onnipresenza di Favino e Servillo). Altro indizio: il padre di Philippe e nonno di Louis, Maurice, prima di intraprendere la sua carriere di carriera era stato burattinaio. Il risultato è un film che sa di autoanalisi e bilancio esistenziale da cui si irradia un calore non retorico né bassamente sentimentale e che sa trovare toni crepuscolari e malinconici piuttosto lontani dal Philippe Garrel abituale. Con una musica emotiva di fondo che potrebbe fare di Le Grantd Chariot un buon successo di pubblico (sempre che non decida di ritirarsi definitivamente a casa davanti alle piattaforme). E con quanta finezza la storia di famiglia si intreccia alle parabole passionali e alle complicazioni amorose dei quattro giovani co-protagonisti, in una ronde alla Marivaux riadattata senza forzature a questi tempi fluidi e post-patriarcali. Con un personaggio, quello del pittore che si rifiuta al mondo, al successo, anche agli affetti certi, in nome di un’inquietudine, di una lacerazione che è la nota grave, cupa, ma anche l’ancoraggio a terra di un film che altrimenti rischierebe la rarefazione per troppa soavità. Tutti bravi, come dicevano i vecchi recensori. Con citazione doverosa per la nonna di Francine Bergé.

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