Cannes 2023. Recensione di JEANNE DU BARRY di Maïwenn, il film di apertura

Jeanne Du Barry, un film di Maiwenn. Con Maiwenn, Johnny Depp, Pierre Richard, Pascal Greggory, Noémie Lvovsky, Bernard Lavernhe,Pauline Pollmann, Diego Le Fur. Fuori concorso. Voto 5 e mezzo
Ancora un film su Versailles (dopo, stando solo ai nomi più eclatanti, Rossellini, Albert Serra, Sofia Coppola). Ancora un Luigi, stavolta il numero 15, e la sua cortigiana. Ancora gli intrighi, le rivalità, i giochi dei potenti e di chi vuole diventarlo, le corruzioni, i maneggi. Cosa aggiunge visto questa biografia, non saprei dirvi quanto fedele e quanto invece romanzata-romanticizzata rispetto alla storia accertata di Du Barry la favorita? Non saprei dire, mai stato un cultore della concubina di Luigi XV né di altre amanti di altri Luigi (me le confondo tutte in una galleria di ciprie, nei e cicisbei, parrucche, crinoline). Sicché mi fido (abbastanza) di quanto s’è visto ieri sera sullo schermo della Salle Debussy, questo Jeanne Du Barry mattatorialmente diretto e interpretato da Maïwenn, già regista dell’a suo tempo (giustamente) lodato Polisse e poi del non così ben accolto, ma non trascurabile, Mon Roi. Entrambi lanciati a Cannes. Che adesso riaccoglie benevolmente la già signora Besson assegnandole il posto prestigioso assai, nonché garanzia di massima visibilità, di film d’apertura. Fuori concorso però. (Digressione: la proiezione, anzi la séance, è stata preceduta, in diretta su grande schermo dal poco distante Grand Theâtre Lumière della  cerimonia inaugurale, inevitabilmente pompier e autocelebrativa però un po’ più contenuta del solito, condotta da una sobria e svelta Chiara Mastroianni, che ha pure cantato benissimo Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco; a seguire presentazione di giurati e presidente di giuria, l’insopportabile come i suoi film Ruben Östlund, che ha sfoderato come alla premiazine l’anno scorso del suo Triangle of Sadness un’inclinazione all’entertainment genere stand up comedy, del resto le sue chiamiamole opere altro non sono che battute anzi punchline e barzellettacce messe in fila. Dopo di lui apoteosi per Michael Douglas premiato alla carriera, speech di ringraziamento lunghetto e però non banale con inevitabili riferimenti a papà Kirk. Però, Dio mio, quanto di sei invecchiato Michael. Che poi a rubargli la scena è arrivata a sorpresa la Grande Signora del Cinema Frnacese, lei, Catherine, Catherine Deneuve, accolta da un’ovazione che non finiva più).
Certo il cinema francese punta parecchio su Jeanne Du Barry, serando in un successo che sia nonsolo local ma anche global. Filmone costosissimo, si parla di qualche decina di milioni, di strabilianti location, bella gente, belle scenografie, bei costumi e però con dentro qualche pensiero in più rispetto alla media del genere e forse una qualche ambizione di riscrivere un pezzo di storia di Francia e d’Europa dalla parte e dal punto di vista femminile: quello di una donna che, tipicamente per il suo genere, per il suo sesso, il potere l’ha esercitato tutt’al più di rimando, nell’ombra, “nascosta dietro al trono” (definizione e categoria di analisi politica, di sex politics, coniata al tempo del primo femminismo ani Settanta per ripescare dall’oblio le molte signore, consori e amanti, che il potere lo esercitavano seducendo, persuadendo, dissuadendo, tramando, anche manipolando il concorsorte o amante lui sì assiso sul trono). Se questa era l’intenzione di Maïwenn, iluminare il regno di Louis Quinze – che poi visto retrospettivamente segna il crepuscolo dell’Ancien Régime prima della catastrofe – attraverso la traettoria della Du Barry favorita del suo re, va detto che il fim non raggiunge l’obiettivo. Più che una manipolatrice la Du Barry secondo Maïwenn è una ribella, una non conformista, una non allineata, una piccola anarchica “soggettivista” e eternamente fuori posto. Jeanne, nata popolana e illegittima da una fantesca e da un monaco e presa sotto la propria ala protettiva da un signore che mantenne lei e la madre e molto bene educò la piccola ragazza, è seguita nella sua parabola, ovviamente di ascesa e caduta, più nei risvolti psicologici e amorosi, più nelle sue intemperanze rispetto alla rigida etichetta di corte. Calcolatrice e razionale com ogni cortigiana, costretta alla prostuzione anzi alla “galanteria” da lei trasformata abilmente in quello che oggi chiameremmo ascensore sociale, Jeanne diventa contessa Du Barry per il matrimonio di convenienza con il suo aristocratico protettore-lenone, perché senza un titolo Louis 14 non avrebbe potuto portarla a corte e assegnarte un appartamento.
La prima parte, quella pre-Versailles, è noiosa, irrisolta, banal con piatto andamento netflixiano, con voce fuori campo a scandire trbolazioni, miserie, umiliazioni, l’impiego” come donma galante al servizio della nobiltà, che ricorda – mi suggerisce un amico – quella di Barry Lyndon, con cui in effetti questo film qualcosa condivide, la consapevolezza che per chi sta un basso è sì possibile arrivare in alto con la determinazione e un destino favorevole, ma che poi la fine, il ritorno al nulla delle origini, è sempre in agguato. Solo che là c’era Kubrick. Maïwenn non ce la fa a uscire dai manierismi del genere benché certi con ostinazione di conferire un’inmpronta visuale decisa lavorando di camera fissa e inquadrature frontali come in tat cinema alto anzi altissimo, quasi a  rinnegare o sublimare il proprio cinema fin qui survoltato, eccitato, adrenalinico, ipercinetico, con macchina a mano a stalkerizzare facce e corpi, e si (ri)veda in twl senso l’semplarissimo Polisse. Purtroppo non scandaglia mai a fondo nella storia della sua protagonista e di chi le sta intorno, non ne restituisce la complessità, preferendo stare nella comfort zone dell’affresco d’epoca variopinto anche quando pare introdrurre qualche nota dissonante rspetto alle forme del cinema storico di lusso. In effetti la vocazione di Maïwenn a un cinema sporco, imperfetto, come fallato qui si scontra con l’inamidata perfezione e la mortifera fissità del biopic cone re, regine e amanti regali. Fors’anche era questo lo scontro che la regista-attrice cercava, mettersi in uro con quel cinema, ma se è così il duello non è riuscita a vincerlo.
Toralmente fuori parte quando deve interpretare la Jeanne che fa strage di cuori aristocratici e ricchi e che, gradino dopo gradino, arriva al vertice facendo capitolare il re, Maïwenn fa suo il personaggio nella seconda parte, quando la narrazione punta sull’estraneità, per origine ma anche per inclinazione caratteriale, della favorita nella Versailels di tutte le congiure e macchinazioni. Con acerrime rivali, a partire dalle figlie del re che la rigettano come un corpo estraneo (e raffigurate, a parte la figlia buona che si fa monaca, come le sorelle feroci di Cenerentola, di cui in fondo questo film è una riscrittura), e poi i digitari di corte, i rappresentanti della Chiesa, che la osteggiano per lo scnadalo che il suo solo essere a Versaills scatena. In questa parte Maïwenn indovina più di una sequenza efficace e godibile, giocando sull’attrito tra la umana troppo umana Jeanne e gli ingessati riti di corte. La spontaneità di chi è venuto dal popolo versus i gli automi del potere. Schema peraltro tutt’altro che nuovo, poiché già la trilogia di Sissi si reggeva sull’onda d’urto creata a Vienna dalla ragazzina spontane e senza freni venuta dai monti della Baviera. Anche il camminare all’indietro per non mostrare il sedere al re, gag che Maïwenn ripete infinite volte e che naturalmente strappa risate anche alla smagata platea di Cannes, stava già in una memorabile sequenza del primo Sissi. Maïwenn però, pur adottando un recitare “moderno” e pur molto puntando sulla sua angolosa, segaligna presenza così diversa dalle signorine e madonnine dei cammei, non riesce come forse avrebbe voluto a destrutturare il biopic storico e ne rimane invece affascinata e condizionata. Ne nasce un ibrido che non trova mai la sua direzione. Eppure proprio qui a Cannes, l’anno scorso, s’era visto a Un Certain regard un film austriaco-tedesco che rimetteva a terra la leggenda Sissi e ne faceva (quasi) una nostra contempranea, Il corsett dell’imperatrice. Un obiettivo che il film di Maïwenn manca. Johnny Depp, dopo le disavventure pubbliche e private americane trova rifugio nel cinema made in France interpretando Louis XV. Torbpido. Dai movimenti lenti. Recita per occhiate, senza muovere muscolo facciale, diciamo, ecco, che lavora in sottrazione. Pascal Greggory e Noémie Lvovsky sprecati in cameos minimi. Melvil Poupaud è il viscido padrone-lenone-sposo di Jeanne. Il più bravo di tutti è Bernard Lavernhe, perfetto quale maestro di cerimonie e buone maniere messo a guardia di Jeanne: diventerà un suo sincero amico.

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