Cannes 2023. Parte molto bene la Quinzaine con LE PROCÈS GOLDMAN (Il processo Goldman) di Cédric Kahn

Photo Séverine Brigeot/ Moonshaker

Le procés Goldman (Il processo Goldman) di Cédric Kahn. Con Arieh Worthalter, Arthur Harari, Stéphan Guérin-Tillié, Jerzy Radziwiłowicz, Laetitia Masson. Quinzaine des Cinéastes. Voto 8

Photo Quinzaine des Cinéastes

Renaming e rebranding alla Quinzaine des Realisateurs che a partire da questa ediione 2023 diventa Quinzaine des Cinéastes, immagino per ragioni di parità linguistica di genere (Cinéastes è parola inclusiva e non binaria). Nuovo anche il direttore artistico, non più l’italiano Paolo Moretti (che tra le altre cose oggi si occupa anche della sezione cinema alla Fondazione Prada di MIlano), rimasto in carica per tre anni: al posto suo Julien Rejl. Che subito centra la sempre insidiosa scelta del film d’apertura, il francese Le Procès Goldman (titolo internazionale The Goldman Case). Gran film ascrivibile all’illustre genere del courtroom drama – per dire, La parola ai giurati di Lumet, Testimone d’accusa di Billy Wilder – incrociato al procedural, e però soprattutto ricostruzione, che a me è parsa fedele e equidistante,  di un caso degli anni Settanta, gli anni di piombo del radicalismo gauchiste, sul quale la Francia si interrogò, si infiammò, si divise tra colpevolisti e innocentisti.
Cédric Kahn (regista e attore di rispetto) realizza la sua opera migliore, almeno tra qyelle che ho visto, e ci si chiede come mai il gran festivàl diretto da Thierry Frémaux se lo si lasciato scappare e non l’abbia messo in concorso, ad esempio al posto del mediocre Le Retour di Catherine Corsini visto ieri sera. Siamo nel 1976, a processo di secondo grado a carico di Pierre Goldman (il primo si era chiuso con una piena condanna suscitando proteste clamoroso da parte dei ragazzi del dopo-Maggio), francese di radici ebraico-polacche, militante di sinistra estrema, affascinato dalle gesta del Che al punto di aver sperimentato per qualche tempo in Venezuela la guerriglia insurrezionale. Tornato in patria, vive una vita sdegnosamente ai margini, in un impegno politico che sfuma pericolosamente nella criminalità comune. Arestato, confessa tre rapine a mano armato di cui è accusato, ma si dichiara innocente della quarta che gli viene contestata, la più grave a una farmacia di Parigi che ha portato all’uccisione di due donae e al ferimento di due uomini, tra cui un agente di polizia. Dite pure che sono un gangster, ma non un assassino. A quella rapina non ho partecipato, non avrei mai ucciso delle donne. Questa la sua ostinata linea di (auto)difesa, anche perseguita con veemenza verbale nel corso del processo. Non è un personaggio qualunque e la sua complessità, le infinite sfumature e contraddizioni della sua personalità, della sua storia personale e politica sono il vero centro del film. Cerca perfino di ripudiare l’avvocato difensore (“sei un ebreo da salotto”) proclamando di poter fare da solo, di non aver bisogno di arringhe e cavilli legalistici perché a parlare per lui sono, saranno, i fatti, perché semplicmente lui non è un assassino, non può esserlo (per sua fortuna l’avvocato resiste e gli resta a fianco). A rendere straordinaria la sua figura è anche il background ebraico giustamente valorizzato e messo in primo piano dal regista, radici che lo stesso imputato rivendica con fierezza ricordando – l’ha anche scritto in un libro diventato un bestseller –  di essere figlio di due ebrei polacchi riparati in Francia per sfuggire all’antisemitismo endemico del paese di origine e perché ferventi comunisti in una Polonia allora dominata da un regime semiautoritario-nazionalista. Goldman senior diventerà un eroe della resistenza e resterà nel paese che ha scelto, la madre tornerà invece nella Polonia sovietizzata del dopoguerra lasciando che Pierre venga cresciuto dal padre e dalla sua seconda moglie. La rievocazione (soprattutto attraverso la deposizione del padre al processo) dell’ebraismo est-europeo di forte impronta antagonista e di sinistra è davvero straordinaria, una lezione di storia e da solo merita la visione del film (che renderei obbligatorio a tutti coloro che, con l’alibi dell’antisionismo, accomunano in automatico, e ignorando colpevolmente il passato, l’ebraismo alla destra estrema).
A un italiano viene in mente il caso Valpreda quando si vedono in Le procés Goldman sfilare i testimoni a carico con le loro evidenti contraddizioni dietro cui non è difficile intravedere manipolazioni e pressioni da parte di una polizia che ha maldestramente e probabilmente con forti pregiudizi effettuato le indagini. L’indignazione di Kahn è di fronte a tanta sciagurata approssimazione è inequivocabile. Eppure nel film si avverte un approccio fermo e lucido all’appassionato e affascinante Goldman. E anche le fondamentali testimonianze che scagionano l’imputato e gli forniscono un alibi passano al vaglio di una macchina da presa tutt’altro che complice e aprioristicamente schierata. Si resta avvinti, in attesa di conoscere il verdetto. Condannato (all’ergastolo) o assolto? In aula i ragazzi della gauche gridano l’innocenza del compagno Pierre e stanno con loro nomi famosi come Sartre, Yves Montand, Régis Debray e Simone Signoret (che vediamo assistere alle udienze).
I meriti di Cédric Kagn sono molti. L’aver valorizzato al meglio una sceneggiatura sobria, secca, che nel suo attenersi ai fatti ci fa, senza che ce ne rendiamo conto, precipitare nell’abisso della Storia. L’avere impresso un ritmo e una tensione che ricordano quello dell’archetipico La parola ai giurati. La perfetta ricostruzione d’epoca – le facce, i costumi, la lingua – senza cadere nei manierismi e feticismi anni Settanta. Una messinscena che non si fa sentire, potente ma nascosta dietro alle schermaglie processuali.
Grande prova dell’attore belga Arieh Worthalter (ricordate? era il padre della transgender di Girl). Sensazionale ritorno di Jerzy Radziwiłowicz, L’uomo di marmo di Andrej Waida, ormai irriconoscibile e qui nella parte del padre di Goldman. La scena della sua deposizione non la si dimentica. Non perdetevi (se e quando il film in qualche modo arrverà in Italia) i titoli di coda, contengono una  rivelazione che lascia storditi.

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