Monster (Kaibutsu) di Kore-da Hirozaku. Con Sakura Ando, Eita Nagayama, Soya Kurikawa, Hinata Hiiragi. Concorso. Voto 7
Il migliore Kore-eda dai tempi di Shoplifters (in Italia Affari di famiglia) che gli procurò qui in era prepandemica la Palma d’oro (presidente di giuria era se ricordo bene Cate Blanchett). Il racconto su bambini e bambine sospesi tra famiglie biologiche perlopiù disfunzionali e famiglie edificate sull’affinità e non sulla legge del sangue perfezionato in quel film assai bello, stava diventando una trappola da cui il regista giapponese non riusciva a liberarsi (vedere Le buone stelle in concorso, e anche premiato per la migliore interpretazione maschile, a Cannes 2022: una replica di Shoplifters dignitosa ma imparagonabile all’originale). Non che in questo Monster Kore-eda abbandoni il mondo dei ragazzini, suo universo tematico d’elezione, ragazzini sempre in attrito con il mondo degli adulti, ma lo fa rinfrescando coraggiosamente lo schema, adottando un andamento spiraliforme da thriller-indagine dell’interiorità, tempi rallentati per dare il rempo ai personaggi, rappresentati minuziosamente, di uscire allo scoperto con la loro complessità. Si passa attraverso vari stadi nell’edificazione della storia, ognuno segnato da una verità che pare autoevidente e incontestabile e che invece verrà ridiscussa al tornante successivo. Sono almeno tre le (finte?) verità prima di arrivare a quella conclusiva, sulla quale però aleggia una non del tutto dissolta ambiguità o se si preferisce indeterminatezza. E come si fa – siamo in Gappone, siamo nel cinema giapponese – a non pensare che Monster sia un omaggio in codice al leggendario Rashomon di Akira Kurosawa? Anche per il susseguiri e l’alternanza di diversi punti di vista nel rimodellare i fatti, sembrare e rimettere insieme i pezzi di una storia che dire pluristratificata è dir poco. In una sapienza costruttiva che molto deve alla sceneggiatura ingegneristico-hitchcockiana di Yuij Sakamoto (quanto all’altro e più famoso Sakamoto, Ryuichi: è lui a firmare le musiche e a lui, da poco scomparso, è dedicato Monster).
Siamo in una media città nipponica. Un ragazzino di nome Minato mostra manifesta comportamenti distruttivi e autodistruttivi, si perde in macabri fantasmi mentali. Si allarma la madre che riesce a farsi dire da lui il trauma che può aver innescato quel disagio: un professore l’ha umiliato in classe e aggredito fisicamente. Ovviamente ci sarà tra la combattiva madre e l’elusiva preside, il professore incriminato e i suoi colleghi un confronto assai duro da cui l’insegnante sotto accusa uscirà distrutto. Ma arriverà anche la sua parte di verità a incrinare le certezze, mentre incalzano altri segnali allarmanti. Un palazzo con bordello incorporato brucia. Un accendifuoco gira tra troppe mani. Una bruciatura compare sul braccio di uno studente. Chi è il mostro? Siamo all’ennesimo caso di insegnanti abusivi e maneschi? O alla vendetta da parte della (presunta) vittima verso un professore per oscuri, inconfessabili motivi? Dopo le verità secondo Minato e secondo il professor Hori, ne conosceremo altre, quella della preside, quella di un compagno di classe. Lo scioglimento del caso arriva dopo oltre un’ora e mezza ed è qualcosa di spiazzanto.
Kore-eda non perde il suo tocco umanista, la sua capacità di leggere dentro allo star male di adulti e non adulti, sfiorando qui temi assai sensibili e contemporanei, il sempre più rischioso rapporto insegnanti-allievi (su cui anche Nuri Bilge Ceylan costruisce il bellissimo Le erbe secche presentato un paio di giorni dopo Monster), le famiglie sghembe, i genitori manipolatori e violenti, perfino la disforia di genere. Grazie a Dio Kore-eda si addentra in questa selva senza ideologismi e senza mai scadere nella denuncia, nel messaggio, nell’egemonia dei contenuti sulla forma. Per un’ora si respira aria di grande cinema, poi, quando la storia vira sulla tortuosa amicizia tra Minato e il compagno di scuola bullizzato, Monster si allenta, si sfibra, indugia qua e là nella palude del sentimenlalismo, in qualche bamboleggiamento di troppo. Peccato. Capolavoro sfiorato ma non realizzato. Anche la rivelazione finale non riesce a rendere conto di tutti i passaggi e le infinite diramazioni di plot e subplot cui abbiamo assistito, mostrando in controluce una certa artificiosità (peraltro magistralmente occultata). Intendiamoci, se arrivasse la seconda Palma per Kore-eda non sarebbe certo uno scandalo. Anche se, al momento in cui posto questa recensione (sera di domenica 21 maggio), a concorso arrivato più o meno alla sua metà, non si vede chi possa togliere la Palma al turco Bilge Ceylan.
Be’, però noto proprio adesso con terrore che sono in rialzo le quotazioni, soprattutto tra i critici stranieri, di May December di Todd Haynes presentato ieri sera, per me robaccia al limite dell’inguardabile. Please, non premiatelo. Già ho sofferto l’anno scorso per la vittoria di Triangle of Sadness e l’anno prima di Titane, stavolta non infierite, abbiate pietà di me.
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