Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese. Con Leonardo Di Caprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Brendan Fraser, Jesse Plemons, John Lightow, Cara Jade Myers. Fuori concorso. Voto tra il 6 e il 7
Il capolavoro annunciato. Il film evento di Cannes 2023, lanciato con stentoreo battere di grancassa dai solerti signori dell’ufficio stampa già un paio di mesi fa. Dunque atteso, anzi sovra-atteso, anche perché firmato da un signore di nome Martin Scorsese. Anche perché di durata extralunga (la versione che si è vista qualche giorno fa è sulle tre ore e mezzo, meno delle quattro temute), come si conviene ai film che devono farsi rispettare e incutere soggezione. Quando è uscito il programma s’è oerò capito che vederlo sarebbe stata una missione ai limiti dell’impossibile, almeno per gli accreditati-stmpa blu come me: due sole proiezioni – dico due, delle quali una, quella in gran pompa e con obbligo di tenue de soirée al Gran Theâtre Lumière di fatto inaccessibile, l’altra dedicata alla stampa in Salle Debussy. Risultato: a tre secondi dall’apertura delle prenotazione online sulla famigerata piattaforma (di cui orami si è già detto tutto il male possibile), Killers of the Flower Moon era già “complet” e irraggiungibile. Anche nei giorni seguenti impossibile aprirsi un varco, tutto bloccato. Poi il miracolo. Una collega che non smetterò mai di ringraziare e che, avendo badge di rango più alto, il ticket era riuscita a prenotare, mi ha ceduto il suo biglietto per sopraggiunti impegni che ke imoedivano di vedere il film. No, non si tratta di una furbata, il regolamento di Cannes prevede, bizzarramente ma prevede, che un biglietto possa essere ceduto (però solo a un altro accreditato). Ho chiesto conferma mandando un’email al ticket office e la risposta è stata: sì, si può fare, è permesso. Così ho potuto infilarmi al press screening in Salle Debussy, con un’aspettativa perfino accresciuta dal tortuoso percorso che mi aveva portato fin lì.
Però poi che delusione. Non che il film sia un fallimento, anzi opera poderosa che potrebbe nel tempo attestarsi come un classico. Ma così, vista in quel campo di energie contrastanti e onde d’urto continue che è il festival di Cannes, mi è sembrata parecchio al di sotto dell’annunciato capolavoro. Solita magnifica messinscena e controllo assoluto della macchina cinema da parte di Scorsese – ma che lo dico a fare? sappiamo bene di cosa sia capace -, solita abbagliante perfezione di messa in quadro, e però smagliature evidenti nella narrazione, andamento faticoso, progressione asmatica del plot. E un’ora almeno di troppo (che ce ne facciamo del processo finale, visto che a quel punto tutto ormai sappiamo, colpe e colpevoli, e non c’è più da aspettarsi la minima rivelazione?).
Difficile definirlo, questo film. S’è detto: un western. Perché certo, siamo nel West, nel territorio che prima della conquista dei coloni era dei nativi Osage, però siamo nell’immediato post prima guerra mondiale, diciamo 1919, con il coprotagonista Ernest Buckhart (interpretato da un Leo Di Caprio ai limiti della catatonia espressiva: sarà stata una scelta?) che arriva in quel mondo direttamente dalle trincee europee. Se western è, si tratta di un western assai tardivo e anche fuori tempo massimo. Si è detto ancora: è un crime. Davvero? Sì, come no, ci sono delitti seriali, morti a catena in quantità impressionante fatti fuori nei modi più brutali. Ma qui non c’è nessun serial killer pervertito e posseduto dai demoni come in tanti film di genere, qui c’è altro, si tratta di ben altro, difficile da classificare nella tradizione del noir, e il massacro assomiglia se mai a una pulizia etnica.
Direi che è un film sulla storia americana, sulla Nascita della (di una) nazione, tant’è che m’è parso di vedere a un certo punto (ma potrei sbagliarmi) un frammento-citazione del film di Griffith. Un film sulla violenza fondativa degli Usa. Paese edificato, come tutti (così assicurano i mitografi, gli studiosi dell’inconscio della Storia come René Girard), su un sacrificio primario. Stavolta della popolazione nativa, conquistata e sottomessa. Ma anche, edificato sulla violenza dei conquistatori su altri conquistatori, sulla lotta fratricida, sui regolamenti di conti interni. Nella rappresentazione di come un potere si installa e si consolida, di come si crea una comunità, il film è semplicemente magnifico, in grado di farci respirare le forze convergenti e opposte, la ferocia e la necessità della Storia. Altrettanto grande Killers of the Flower Moon è quando, lucidamente, ci mostra come gli Stati Uniti passino dalla fase della conquista selvaggia dell’Ovest (e dell’instaurazione immediatamente successiva di potentati locali e boss locali sottratti a ogni legge) all’essere un paese in cui è il centro dello Stato, a Washington, a riprendersi il potere, a attribuirsi e monopolizzare l’esercizio della forza. Passaggio cruciale sottolineato nel film dall’arrivo degli uomini dell’Fbi di Hoover a fare piazza pulita del satrapo di Osage County – un De Niro più che mai Padrino – e della sua banda travestita da gente perbene.
Il film si apre con un respiro epico (con analogie, come i balli collettivi e il senso degli spazi smisurati, con i Cancelli del cielo di Cimino), mostrandoci una comunità pulsante in cui i nativo-americani sembrano vivere in armonia con gli uomini e le donne venuti dall’Est. A sancire l’integrazione ci sono i molti matrimoni misti tra coloni e donne Osage, mentre il benessere è di tutti, grazie al petrolio, il nuovo oro, che sgorga a fiotti da quelle terre, molte in possesso degli autoctoni. Che dunque, da conquistati, si ritrovano a essere dei nouveaux riches, con vite di lusso e magari con i “bianchi” venuti dall’Est a far loro da servi. Una collettività che Scorsese sa mettere molto bene a fuoco, svelandone però ben presto anche i paradossi e le ombre. Quella contea così apparentemente integrata e felice è in realtà retta da un ras, il colono William Hale (Robert De Niro), che tutto controlla e a tutto sovrintende. Sarà lui a accogliere il nipote reduce dalla WWI (Leonardo Di Caprio) come un figlio, a inserirlo man mano nella vita di Osage County spingendolo a sposare una nativa. Perché questi matrimoni siano tanto frequenti è lo stesso Hale a spiegarlo: i coloni possono entrare così nell’asse ereditario dei molti padroni “idiani”, un primo passo per mettere le mani sulle loro terre gonfie di petrolio. Ed è ancora lui a spiegare perché siano tanti e tanto spaventosi i delitti che da tempo insanguinano quella regione solo apparentemente pacificata: sono il mezzo per far fuori i proprietari terrieri, i loro parenti e immediati eredi, e prendere il controllo dei pozzi. Così vediamo morire una dopo l’altra le sorelle e la madre della donna che Ernest Buckhart (Di Caprio) ha preso in moglie. Che potrebbe a sua volta essere uccisa da un momento all’altro.
Ecco, è a questo punto che il film si sbilancia. È chiaro molto presto quale sia il movente della serie di delitti, di lì a poco sarà chiaro anche chi li progetta e li esegue. E siamo sì e no a un’ora e mezza di film: ne mancano altre due al The End e e sappiamo già tutto. Col risultato che, nonostante l’escalation dell’orrore e del sangue, la tensione cala a livelli prossimi allo zero. E non basta la precisissima regia di Scorsese a far funzionare una macchina narrativa ansimante, che ormai gira a vuoto. Per non dire delle molte insensatezze che mettono a prova il famoso patto di incredulità con lo spettatore. Ma la moglie di Ernest/Di Caprio vedendosi ammazzare la prima sorella, vedendosi ammazzare la seconda sorella con il cognato e se ricordo bene pure i loro figli, vedendo morire in modo alquanto sospetto la madre, a quel punto non dovrebbe farsi venire almeno qualche deubbio? Invece macché, la pur intelligente (la interpreta benissimo un’attrice che è la vera rivelazione del film, Lily Gladstone: mi sa che la reincontreremo sulla strada verso l’Oscar) continua, per anni e anni, a non vedere, a rimuovere, a non agire, a fidarsi di chi invece è il suo nemico. E la comunità degli Osage che fa di fronte a decine e decine di ammazzamenti dei suoi membri, perfino mediante nitroglicerina? Cerca di mandare a Washington un suo rappresentante a chiedere un’inchiesta, solo che pure lui viene fatto fuori. E le già timide e tremebonde proteste finiscono. Scorsese è un maestro, ma nemmeno lui basta a rimediare a simili voragini di senso della sceneggiatura. Voto interlocutorio: 7. Però film da rivedere con calma al di fuori della giostra cannense.
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