Venezia 80. GREEN BORDER di Agnieszka Holland (recensione): crisi umanitaria ai confini dell’Ue

Zielona Granica (Green Border – Confine verde), un film di Agnieszka Holland. Con Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous. Con. Concorso. Voto tra il 6 e il 7
Come avrebbero detto i flani di un tempo: grande successo di pubblico e di critica, l’applauso più lungo alla Mostra di Venezia. Dietro a questo (abbastanza inaspettato alla vigilia) trionfo c’è Agnieszka Holland, signora della mdp di lungo corso che si è sempre mossa tra eurocinema diciamo arthouse e incursioni in quello americano più mainstream, senza disdegnare la serialità, un’artigiana di eccellente mestiere mai del tutto assurta però alla categoria “autori”. Questa, con Green Border, potrebbe essere la volta buona, tantopiù se arrivasse il Leone, come da molti pronosticato, o comunque un premio importante. Del resto, ha realizzato un film cui è difficile resistere. Cinema tradizionale e robusto (diciamo all’esatto opposto di un Bonello, per stare al concorso di quest’anno), senza troppe ricercatezze formali ma al servizio del racconto, cinema di contenuti dove il cosa prevale sul come (disturbando i puristi dello specifico cinematografico e dell’egemonia dello stile): con il rischio però, trattando un tema sensibile e di stringentissima attualità come i migranti, di essere ricattatorio verso lo spettatore. Di quegli oggetti cinematografici che per un recensore sono sempre complicati da maneggiare (se ti azzardi a sollevare qualche critica o semplicemente una qualche riserva ti piovono addosso accuse di crudeltà mentale, se non peggio). Green Border: il confine verde è quello, di boschi e di campi che separa la Bielorussia dalla Polonia, dunque anche linea di separazione tra Ue e extraUe. Diventato punto nevralgico del continente quando, più o meno un anno e mezzo fa, è stato il teatro di una crisi umanitaria. In seguito alle promesse del tiranno Lukashenka di facilitare loro il passaggio dalla Bielorussia alla Polonia, quindi l’entrata nell’agognata Unione europa, erano infatti affluiti a Minsk decine di migliaia di migranti provenienti da Medio Oriente (soprattutto Siria), Iraq, Afghanistan, Nord Africa e Africa subsahariana. Una nuova rotta dopo quelle balcanica e mediterranea. S’è capito ben presto che si trattava di un inganno, probabilmente orchestrato con la Russia putiniana, allo scopo di creare un’emergenza profughi e destabilizzare Polonia e l’intera Ue. Migranti usati come arma di una guerra ibrida. Sicché, mentre militari e polizie varie della Bielorussia spingevano i profughi verso la frontiera polacca costringendoli con la minaccia a passare illegalmente sotto il filo spinato, l’altra polizia di frontiera, quella polacca, con analoga spietatezza ributtava fuori chi era riuscito a entrare. In un tragico ping pong che è durato per mesi e ha creato una crisi umanitaria con migliaia di vittime e dispersi. Una vicenda atroce, passata perlopiù nell’indifferenza della civile Europa. Questo il nocciolo duro di Green Border, che, pure con modalità ispirate al cinema del reale – uso del bianco e nero, macchina da presa mobile a inseguire i personaggi -, ricostruisce finzionalmente quanto successo. Con abilità e mestiere Agnieszka Holand apponta più linee narrative, per poi alternarle e farle entrare in collisione. L’asse principale è quello di un gruppo (una esemplare parte per il tutto) di migranti composto da una famiglia di siriani, una signora afghana, e tra di loro anche due bambini. Ne seguiremo il calvario, il disumano rimbalzo tra Polonia e Bielorussia, assisteremo alla violenza delle polizie di frontiera (e quella polacca anche più dura della bielorussa). C’è anche una paradigmatica microstoria di un bravo ragazzo, un uomo buono e giusto, finito senza rendersi conto di quanto lo aspettava nella polizia di confine e testimone delle violenze perpetrate. E c’è un gruppo di attivisti impegnati ad aiutare cladnestinamente gli immigrati. Lo schema narrativo è quello dello scontro tra Bene e Male, senza zone grigie in mezzo, è quello della caccia da parte degli uomini della legge a chi, non per colpa sua, è considerato fuorilegge. Come in un western. Perché Green Border è anche questo, è cinema di genere per quanto mascherato, oltre che un robusto film di denuncia civile. Holland non si e non ci risparmia niente, costruendo un film turgido, tutto di pieni, di climax, di picchi drammaturgici e drammatici. Dove tutto è esplicito, tutto è detto e mostrato, anche i passaggi più atroci (assitsiamo perfino alla morte di un bambino inghiottito dalle sabbie mobili di una palude). Colpire più che al cuore alle viscere dello spettatore. E allora, come sempre in simili casi, ci si chiede se non sia pornografia del dolore questa, se non si sia oltrepassato il confine tra ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è. Questione antica quanto il cinema, e questione posta molte volte a proposito del cinema sulla Shoah. Davvero, vedendo quei terribili ceffi con i cani feroci della polizia di frontiera, si pensa alle SS che rastrellavano e deportavano gli ebrei nei campi di sterminio o li fucilavano in massa come a Babi Yar. Le eterne ombre della MittelEuropa e dell’Europa orientale. Non so quanto sia voluto, ma Green Border traccia, con la sua rappresentazione, una continuità tra gli orrori del confine verde e le infinite efferatezze passate di quella infelice parte del nostro continente (leggere l’agghiacciante Terre insanguinate dello storico Timithy Snyder, Bur, per rendersi conto di cosa sia stato il Novecento in quei paesi). Una linea di sangue che sembra non finire mai. Sicuramento questo della Holland è cinema urlato, refrattario all’ellisse e alla giusta misura, ma è impossibile non riconoscerne l’efficacia e la necessità.

Questa voce è stata pubblicata in cinema, Container, Dai festival, festival, film, recensioni e contrassegnata con , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.