Rapito, un film di Marco Bellocchio. Con Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese, Filippo Timi, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon. Concorso. Voto 5
Qualche sera fa (la sera di martedì 23 maggio) al press screening delle 22.30 di Rapito in Debussy sala semideserta sia in orchestre che in balcon, indizio di un’attesa non certo spasmodica. Alla fine (verso le 0.40) gente insonnolita, pochi anzi niente applausi, e via tutti a letto. Non ho percepito in corso di proiezione un gran calore nei presenti, se mai una certa attenzione, questo sì. Sicché non mi aspettavo i commenti mediamente positivi della stampa internazionale l’indomani (addirittura 5 le stelle date da Peter Bradshaw del Guardian), mentre le reaction italiane, tutte trionfalistiche e estatiche, quelle sì che erano del tutto prevedibili: si sa che a Cannes il sovranismo critico domina perché “bisogna fare lavoro di squadra e sostenere il nostro cinema in terra straniera”, e si urla al capolavoro a prescindere, e si fanno cronache marziane cioè inventatissime su quindici, ma che dico, venti minuti venti! di applausi al Grande Theâtre Lumière (la sala grande dove si officiano le messe cantate di Cannes).
Non verrei fare il solito contrarian (che è modo fine di dire bastian contrario, locuzione che ho sempre detestato), ma a me il film di Bellocchio non è parso granché, pure con alcune, e più che alcune, scene francamente insopportabili. Ma devo aver visto un altro film rispetto a quello adorato dai recensori di ogni generazione di casa nostra. La storia dell’infame rapimento Mortara, rimasta per molto tempo semisommersa negli archivi e mai davvero divulgata a livello di massa, meritava da tempo di essere raccontata da un grande regista. Ci aveva provato Spielberg, con tanto di casting italiano annunciato per il bambino protagonista, poi chissà perché il progetto è sparito dai radar senza che fossero fornite molte spiegazioni. Ci ha pensato poi Marco Bellocchio, ormai issato sul piedestallo dil riconosciuto e più che venerato maestro, di “maggior regista italiano ancora al lavoro”, reduce da successi indiscutibili come Il traditore e Esterno notte (entrambi a mio parere alquanto sopravvalutati). Il caso Mortara, allora. Siamo nel 1851, nella Bologna sotto stato pontificio, a Sant’Uffizio, l’istituzione ecclesiastica posta a guardia dell’ortodossia, ancora operante. Una coppia di ebrei, Salomone detto Momolo e Marianna Mortara, si vedono recapitare un ordine inappellabile: Edgardo, sei anni, uno dei loro figli, deve essere allontanato dalla famiglia e posto sotto la custodia di Santa Madre Chiesa in quanto risulta battezzato, quindi non più ebreo: va allevato altrove, sotratto alla sua famiglia, alla sua comunità, alla sua religione per essere educato alla fede cristiana. L’ingiunziome viene da Roma, per diretto volere – si lascia intendere- dello stesso Papa Pio IX, ma è stata perfezionata nei suoi risvolti operativi dalla branca emiliana del Sant’Uffizio. A nulla varranno di fronte all’evidente sopruso (non si forniscono infomazioni su come sia avvenuto il battesimo né da chi sia stato comminato) le proteste dei due poveri genitori. Edgardo verrà letteramente rapito, portato via dalla sua città, condotto a Roma e immesso nella scuola dei catecumeni: bambini perlopiù ebrei da rieducare e condurre sulla via delle retta religione. Lo scandalo valica i confini, insorgono i liberi pensatori e le comunità ebraiche di Francia, Inghilterra, Stati Uniti. La campagna giornalistica contro il regnante Pio IX, il respnsabile dell’abominio, è violentissima, ma non sortisc effetti, Edgardo resta e resterà nelle mani predatrici della Chiesa.
Una storia enorme, già di suo perfettamente cinematografabile. Che molto svela dell’Italia, dell’intolleranza verso gli ebrei, del totalitarismo ideologico della Chiesa, della sua assoluta, dogmatica pretesa di dominio sulle coscienze. Bellocchio si inoltra lungo questa narrazione con l’impeto di sempre, con la rabbia, con qei pugni in tasca pronti a sferrare l’attacco, anche adesso a 83 anni. Rapito è un corpo a corpo da lui ingaggiato con l’istituzione cattolica vista come fabbrica di fanatismo e violenza. Ma stavolta, più che in altri sui lavori, la polemica contro la Chiesa si trasforma in ossessione, furia parossistica che si ingoia tutto il film: l’antipapismo e il mangiapretismo diventano il vero asse attorno al quale narrazione, rappresentazione, messinscena ruotano. Viene da pensare che il rapimento del povero Edgardo Mortara altro non sia che il pretesto e l’innesco per l’ennesima sarabanda bellocchiana, tra il grottesco e il laido con ampio ricorso alla corporalità (corpi di volta in volta compressi, oppressi, torturati, esplosi, feriti), contro la Chiesa di Roma. Man mano il ragazzino Edgardo Mortara e la sua infelice famiglia scivolano dal centro ai bordi della narrazione per far posto all’invettiva contro Pio IX e i suoi scherani. Mai si era visto, neppure nei film e romanzi e romanzacci e libelli sui Borgia o sulla Papessa Giovanna, una figura papale così denigrata e mostrificata, un Pio IX dal ghigno satanico, repellente, ripugnante, capo inflessibile e fanatico di una Chiesa Impero del Male. Una deformazione che rischia di invalidare la stessa carica di denuncia del film.
Si sarebbe voluto più riflessione, più finezza di sguardo, meno rozzezza, si sarebbe voluto che Bellochio e la sua cosceneggiatrice Susanna Nicchiarelli ci spiegassero meglio quello che è il passaggio più sorprendente del caso Mortara (da qui in avanti spolier), la scelta di Edgardo, diventato adulto, di non tornare più in famiglia e all’ebraismo ma di restare cristiano. Anzi, di farsi addirittura prete. Di tutta la vicenda questo è l’enigma più perturbante, che però il film rinuncia ad affrontare. Certo, colpa della manipolazione e del brainwashing cui Edgardo vien sottoposto (Bellocchio parla anche, nel pressbook, di sindrome di Stoccolma). Ma come è avvenuta quella manipolazione? Quali sono stati i tornanti psicologici e esistenziali della trasformazione di Edgardo? Il film si astiene dall’analisi o, meglio, ce ne fornisce una insoddisfacente. Tagliato con la scure, Rapito evita la complessità e ogni vera indagine rischiando così, nella parte finale, di naufragare per l’impossibilità-incapacità di dare coerenza al personaggio di Edgardo adulto, di metterlo a fuoco. Ed ecco allora un Edgardo dimidiato, oscillante tra opposti estremi psichici, un pretino bipolare, tra l’isterico e lo schizoide, che vuole sì stare nella Chiesa ma poi non riesce a controllare l’impulso ad aggredire Pio IX (che per questo gli infliggerà una punizione umiliante della quale la macchina da presa non ci risparmia nulla). Dal cinema di denuncia si approda a una specie di Psycho in versione vaticana. Fino alla scena finale della madre morente, che nel suo essere tragica e insieme grottesca è puro bellocchismo, nel bene e nel male.
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